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Vincenzo Spera (Assomusica): «3mila concerti e 40 milioni persi fino al 3 aprile»

Non solo un danno culturale per la socialità del nostro paese: lo stop dei concerti causa soprattutto un danno economico a un intero settore che dà lavoro a migliaia di persone. Ne parliamo con Vincenzo Spera, presidente di Assomusica

Autore Federico Durante
  • Il12 Marzo 2020
Vincenzo Spera (Assomusica): «3mila concerti e 40 milioni persi fino al 3 aprile»

Foto di Bogomil Mihaylov / Unsplash

Con lo stop ai concerti previsto fino al 3 aprile, nell’industria musicale si è delineata subito una certezza. Non si tratta solamente di un danno culturale per la socialità del nostro paese o per la promozione degli artisti. La sospensione degli spettacoli causa soprattutto un danno economico a un intero settore che dà lavoro a migliaia di persone e genera un indotto importante per i territori. Fare previsioni superiori all’ordine di grandezza delle settimane in questa fase è difficile, ma quest’emergenza – come fa, del resto, ogni crisi – ci mette di fronte a opportunità che possono essere colte per uscirne più forti di prima. Facciamo il punto con una delle persone “in prima linea” sull’argomento: Vincenzo Spera, presidente di Assomusica, l’organizzazione che rappresenta le imprese che fanno musica dal vivo.

Quali sono le stime di danno economico per il settore della musica dal vivo?

Parliamo di circa 3mila eventi considerando il periodo che va dal 23 febbraio al 3 aprile, per un valore di circa 40 milioni di fatturato. Pur fra le incertezze, stiamo cercando di riprogrammare gli spettacoli. Siamo intorno al 50% di concerti già rimandati. C’è un 17%, invece, che è stato annullato. Nei 40 milioni di fatturato dobbiamo anche considerare quello che verrà a mancare alle realtà in cui agiamo: visto che un concerto porta migliaia di persone da fuori città o da fuori regione, abbiamo calcolato una perdita nei territori di circa 120 milioni di indotto. Oltretutto siamo uno dei pochi settori che hanno l’indotto “all’andata e al ritorno”.

Avete pensato allo scenario per quest’estate, quando si entrerà nel vivo della programmazione concertistica, o è troppo presto?

Dal primo momento ho sostenuto la tesi di spostare tutto all’autunno. Nessuno spera che da giugno in poi non si possano fare concerti, ma fare previsioni al momento è complesso. La cosa che preoccupa ora è che, stando alle notizie, si parla di avere 25 miliardi a disposizione ma la prima comunicazione data è che non saranno utilizzati subito. Bisognerebbe buttarli subito nell’economia per fare delle iniezioni. Poi oltre all’indotto che va nei territori c’è quello derivante dal diritto d’autore: senza i concerti gli artisti ne percepiscono meno.

Cosa chiedete al governo come misure di ammortizzamento per contenere il danno economico?

C’è bisogno che ci aiutino con liquidità diretta e indiretta. Da un lato, che non ci facciano spendere soldi in cose come l’IVA (anche considerato il fatto che noi siamo penalizzati da una serie di accertamenti legati all’IVA agevolata sulle prestazioni artistiche). Dall’altro che diano la possibilità di avere finanziamenti a tassi super agevolati. Per esempio con lo 0,5% di interessi in modo da avere liquidità da investire per ripartire. Può darsi che le multinazionali reggano, ma tutto il resto rischia di saltare. Infine una cosa che chiedono tutti: il blocco dei mutui e di eventuali finanziamenti legati all’acquisizione di strutture per lo spettacolo o di attrezzature tecnologiche. In generale occorre anche dare garanzie a tutti i lavoratori del settore (che conta circa 36mila imprese che intervengono a vario livello, dalle venue ai service). Spesso “sfuggono” dai radar, perché magari lavorano in cooperative, o a chiamata, oppure sono a partita IVA: tutti soggetti che non rientrano nelle tutele dello Stato per il resto del mondo del lavoro.

In questi giorni si stanno moltiplicando le iniziative degli artisti che si esibiscono in diretta streaming per i loro fan. È il segnale giusto per tenere duro queste settimane?

La musica popolare contemporanea non è considerata “cultura” in senso stretto dal Ministero dei Beni Culturali perché fatta da imprese profit. Il paradosso è che se l’artista va a suonare per un teatro d’opera allora è cultura e gli danno i soldi per fare i concerti che noi facciamo senza soldi. I fatti di questi giorni testimoniano il nostro ruolo: gli artisti che fanno musica dal vivo sono uno degli elementi che stanno creando più collante fra la gente. Gli artisti non si sono scordati del pubblico e siamo tutti vicini. Questo è innegabilmente un fatto culturale.

Oltre a questo, cosa possono fare di concreto case discografiche, promoter, testate giornalistiche per superare questa fase più forti di prima?

Credo che vadano un po’ rivisti i meccanismi interni alla filiera lavorativa. Ci deve essere una rimodulazione di ruoli e competenze. Questo va fatto anche al di fuori del nostro lavoro: è un problema mondiale, di globalizzazione. Se la ricchezza mondiale è detenuta da 400 o 500 persone che si sono arricchite grazie alla globalizzazione, quelli dovrebbero essere i primi ad aprire il portafogli per aiutare i governi a ripartire. Questa è un’utopia, ma d’altronde i pazzi hanno sempre ragione.

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