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Spotify va in borsa: ecco cosa cambia realmente

Da -1 a +30 miliardi: il 3 aprile 2018 Spotify è andata in borsa, ma cosa cambia ora realmente per la creatura di Daniel Ek?

Autore Fabrizio Galassi
  • Il1 Maggio 2018
Spotify va in borsa: ecco cosa cambia realmente

Spotify ricorda in parte la storia di Apple e di Steve Jobs, così come quella di Facebook e Zuckerberg. Non è stato il primo sito di streaming musicale, anzi, è nato un anno dopo Deezer che per molti mesi è stato anche quello presente in più territori. Eppure, da subito, quando mercato o discografia dovevano dipingere un ipotetico futuro, parlavano della creatura di Daniel Ek: proprio perché, come Jobs e Zuckerberg, Ek ha costruito la propria azienda a sua immagine e somiglianza, diventando lui stesso un prodotto popolare, facendo in modo che le persone si fidassero del suo operato, non tanto della piattaforma che ha ideato.

Daniel Ek
Daniel Ek, fondatore e CEO di Spotify

La sua adolescenza è già avvolta nel mito: nel 1996, a soli 13 anni, inizia a capire la rete e le sue potenzialità, quindi stabilisce che c’è spazio per un’azienda che realizzi siti per conto terzi. Oggi è un approccio quasi banale, ma non nel ’96, non a 13 anni. In un’intervista del 2012 spiega: “Al primo cliente ho chiesto 100 dollari. Al secondo 200 e dopo un anno realizzavo siti per 5.000 dollari”. A 18 anni aveva una squadra di 25 persone, ma il grande successo arriva con la creazione della società di pubblicità online ADVertigo, successivamente venduta al colosso svedese TradeDoubler. A questo punto Daniel ha 23 anni e può serenamente andare in pensione.

Non solo, Ek diventa una specie di mito tanto da essere chiamato da μTorrent come amministratore delegato, ed è proprio in questa posizione che capisce le potenzialità della musica digitale. In vent’anni, Daniel da Rågsved passa da fare home page a 100 dollari a diventare una delle persone più potenti dell’industria musicale. È per questo motivo che parliamo costantemente di Spotify ed è per questo che centinaia, poi migliaia, poi milioni di persone si sono fidate del brand Ek. Ciononostante, Spotify è stata sempre in rosso arrivando a perdere fino a 1.5 miliardi di dollari. Uscite che andavano principalmente nelle casse delle major: Spotify dichiara di aver destinato agli aventi diritto oltre 8 miliardi di dollari.

Poi arriva il gran giorno: è il 3 aprile 2018 e Spotify debutta sul mercato azionario volando fino a 30 miliardi di dollari di capitalizzazione. I problemi dovrebbero essere finiti, Ek si gode la sua quota del 25.7%, così come Sony Music che detiene il 5.7%, percentuale che porterebbe nelle casse della major circa 1.7 miliardi di dollari. E forse i problemi possono iniziare da qui, ma non per Spotify che ha mantenuto il concetto di trasparenza nel momento del suo ingresso al New York Stock Exchange vendendo le azioni in maniera diretta, senza coinvolgere banche o fondi – a conferma della sicurezza del Billion Boy svedese. Il problema, semmai, è nei piani alti delle major perché dovranno mantenere alcune delle promesse fatte negli ultimi anni. Sony: “Condivideremo ogni guadagno dalla vendita delle azioni Spotify con i nostri partner indipendenti: etichette e distributori”. Warner: “Condivideremo ogni guadagno dalla vendita delle azioni Spotify con i nostri partner indipendenti: etichette e distributori”. Universal: “Condivideremo ogni guadagno dalla vendita delle azioni Spotify con i nostri artisti”. In attesa conoscere quali etichette, distributori e artisti saranno premiati dalla vendita delle azioni Spotify, il mercato discografico teme il mutamento della piattaforma di streaming.

Partiamo da un concetto: il prodotto di Spotify qual è? Per gli utenti è la musica, per i manager svedesi è Spotify stesso. Al di là della bella frase da proporre ai venture capitalist, in realtà Spotify non ha un prodotto, non lo detiene, non fa parte del suo DNA. Dall’altra parte abbiamo le tre major che godono ancora di una buona reputazione ma non sono ritenute le salvatrici della musica e del mercato. Cosa accade quindi se in questo mondo fatto di musica economicamente disintermediata si mette in contatto l’ascoltatore con l’artista? Pensate se Spotify producesse e distribuisse il nuovo album di Bruno Mars (prendiamo lui perché ha suonato al matrimonio di Ek). Bruno potrebbe ottenere un ritorno maggiore delle sue royalties, perché Spotify non dovrebbe più versare una parte consistente alla major di riferimento. Togliamo di mezzo la major e ci guadagniamo entrambi.

«Difficilmente potrebbe risultare un diretto competitor delle case discografiche – spiega Enzo Mazza, CEO di FIMI – Con loro si formerebbe un conflitto d’interesse essendo essa stessa il primo interlocutore per la distribuzione online». Quindi se io ti “rubo” Bruno Mars, tu Warner potresti togliere tutto il tuo catalogo da Spotify. Poi aggiunge: «La quotazione di Spotify è sicuramente un buon segnale per la definitiva affermazione dello streaming. C’è però un’assoluta necessità di convertire i consumatori verso le offerte premium che sono essenziali per garantire la sostenibilità della musica».

La pensa in maniera differente il discografico Giampaolo Rosselli (Simone Cristicchi, Luca Carboni, Lucio Dalla, Valeria Rossi): «Questa continua ascesa economica di Spotify mi fa pensare a Netflix. Sono sempre molto sospettoso quando l’azienda diventa più importante di un prodotto artistico o culturale, tutto si riduce ad un guadagno. Guadagno significa continuare a fare, non guadagnare significa fermarsi».

Pier Ferrantini (cantante dei Velvet e conduttore radiofonico per Radio2Live e Rock’n’Roll Circus) la mette sotto un altro aspetto: «La quotazione in borsa di Spotify e il successo di questi primi giorni del titolo sul mercato non mi hanno sorpreso. Sono invece molto curioso rispetto ai prossimi sviluppi della piattaforma. Mi aspetto innovazioni importanti, dall’implementazione della parte video ai contenuti extra fino allo streaming in hi-fi, in cui spero molto».

E proprio il 30 marzo Spotify ha lanciato video in esclusiva di The Weeknd e Taylor Swift, per adesso solo sui mercati americani, inglesi, sud americani e svedesi. Non dimentichiamoci delle altre due corazzate: Apple Music e Amazon che faranno di tutto per togliere utenti premium a Spotify. La prima punta sulla fedeltà al brand e si porta a casa 40 milioni di iscritti, Amazon invece gioca con gli utenti Prime e con i prodotti esclusivi, come l’altoparlante intelligente Echo, cosa che gli permette di raddoppiare gli iscritti ogni sei mesi arrivando a un totale di “decine di milioni di iscritti”, rilancia il Vice Presidente del settore Amazon Music Steve Boom. Quindi, oggi che Spotify vale 30 miliardi di dollari, Daniel Ek può permettersi di tenere tutti sotto controllo: partner, competitor e utenti.

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