Alex Infascelli e il suo provino mancato con i Pearl Jam
Arriva in libreria “Now Here, Nowhere”, il primo appassionante romanzo autobiografico del regista (ed ex musicista) romano che abbiamo imparato ad apprezzare di recente per due straordinari documentari: “S for Stanley” (2015) e “Mi chiamo Francesco Totti” (2020)
Quando ho saputo che Alex Infascelli si stava preparando a dare alle stampe un libro autobiografico, devo ammettere l’impazienza di riceverlo per leggerlo. Un po’ perché è un mio quasi coetaneo, con tante passioni in comune. Ma soprattutto perché da amici e addetti al lavoro ho ascoltato racconti sorprendenti su di lui. Così è diventato nella mia immaginazione un personaggio lui stesso da romanzo… Questa sensazione è ancor più alimentata dal fatto che non ci siamo mai incontrati di persona.
Infascelli è figlio di un produttore e regista di culto come Roberto Infascelli, che perse la vita nel 1977 in un incidente stradale. Piccola curiosità: il fratello del padre, Paolo, è legato a una delle donne più belle del cinema anni ’70, Carole André. Lei divenne popolarissima interpretando la “Perla di Labuan” nella serie TV Sandokan. Alex fu negli anni ’90 il regista dei videoclip degli artisti italiani più cool di quel decennio. Dall’amico Frankie hi-nrg agli Almamegretta, da Max Gazzé a Elisa, Ligabue, Verdena. Per poi debuttare alla regia cinematografica. I suoi primi importanti lungometraggi si appoggiarono a due scrittori di culto all’epoca come Carlo Lucarelli (per il premiato e omonimo Almost Blue) e Niccolò Ammaniti, al cui romanzo Il libro italiano dei morti Alex si rifece per il bellissimo Il siero della vanità del 2004.
Avvicinandoci all’oggi, il Nostro è tornato alla ribalta con due notevolissimi documentari. Il primo, geniale, è S for Stanley del 2015. Si focalizza sulla vita di uno chaffeur italiano di nome Emilio D’Alessandro. Oltre ad esser stato l’autista personale di Stanley Kubrick, ne divenne niente meno che una sorta di fondamentale uomo di fiducia. E poi, per tutti i seguaci della divinità Eupalla, il documentario Mi chiamo Francesco Totti (2020) è una goduria.
Ma non tutti sanno che Alex ha un passato da musicista. E che, grazie al suo viaggio negli States nel 1988, lentamente ma in maniera inesorabile si inserì nel giro giusto dei musicisti e artisti che in breve tempo sarebbero diventati protagonisti della scena grunge e della cultura americana di allora. Da Prince a Matt Groening, da Courtney Love al suo fidanzato, il messia Kurt Cobain. Io scoprii questa connessione di Alex Infascelli con la scena grunge quando lessi un suo contributo in un numero di Rolling Stone del 2004. In copertina c’era Kurt Cobain per la celebrazione del decennale dalla morte della rockstar di “Rain City”. In quel contesto rimasi impressionato dalla passione e dalla cura dei dettagli che sciorinò tra le righe Alex. Bene, leggendo Now Here, Nowhere, appena edito da HarperCollins, di sicuro vi divertirete a scovare tanti aneddoti.
Intanto godetevi questo estratto come appetizer e invece vi invito ad aspettare il prossimo numero di Billboard, quello estivo, dove Alex comparirà con un breve ma illuminante contributo originale dove spiega come il grunge abbia influenzato il suo modo di fare cinema.
L’estratto da Now Here, Nowhere di Alex Infascelli
Nonostante lo shock iniziale, e i primi yellow ribbons attaccati ai pali e agli alberi fuori dalle case, il mio nuovo lavoro procede come se nulla fosse: la guerra è in televisione, non per la strada.
La Propaganda Films all’inizio mi era sembrata soprattutto un acceleratore per avvicinare l’universo musicale e osservarlo dall’interno, invece adesso ad appassionarmi è proprio la parte visiva e registica dei video ai quali mi capita di lavorare. Se ne accorgono tutti, per cui da assistente di produzione, sgobbino, runner, guidatore di camion, mi promuovono al reparto di scenografia, poi a quello di regia, dove lavoro come assistente e aiuto regista.
Sento crescere in me un richiamo ancestrale, mi tornano alla mente tutte le volte che ero andato sui set con mio padre e dove, nonostante fossi quel ragazzino lentigginoso figlio del produttore, vinti dalla mia curiosità e intraprendenza, quelli della troupe mi mettevano sempre a fare qualcosa.
E così, senza pensarci troppo e spinto da qualcosa di irrefrenabile, decido di lasciare la musica.
Per confermare la grande svolta, metto un’inserzione e vendo la batteria. La prima a rispondere e venire a vederla è una ragazzetta punk, accompagnata dal suo fidanzato. Mentre contrattiamo sul prezzo, mi raccontano che insieme hanno una band: lei suona il basso, lui la batteria, si tengono la mano e non vedono l’ora di tornare nel loro garage a provare. Praticamente gliela regalo, la batteria. Quando li vedo allontanarsi, mi viene il magone. Perché quello che vedo andar via non è solo il mio strumento, ma un pezzo importante della mia vita, e ho il sospetto che stia portando via ben altro con sé.
Un attimo dopo già non ci penso più, perché so che tra poco sarò con Mark e Holly, i miei nuovi mamma e papà, ma soprattutto con Lei, la mia nuova medicina.
Una medicina buona, stavolta.
In primavera ricevo una telefonata da un vecchio amico.
Chris mi sta chiamando dal North Carolina, dove si è trasferito in pianta stabile con i Blind Melon per registrare il loro primo disco. Mi cerca perché una band di suoi amici di Seattle sta cercando un batterista e secondo lui io sono quello giusto. Non so che dire, mi sembra come se la sua voce stia arrivando da un tempo lontano anni luce, un tempo in cui ricevere una telefonata come questa mi avrebbe fatto saltare sulla sedia.
Gli spiego che non suono più, che ho addirittura venduto la batteria, ma lui niente, vuole convincermi a provare. Sostiene che questi ragazzi sono pazzeschi, dei giganti, che hanno appena finito di registrare il loro primo album, devono partire per il tour, ma non hanno un batterista titolare. Dovrei solo imparare due brani e mandare la registrazione di me che li suono.
Rieccomi qui, con il destino che mi viene a bussare alla porta. A questo punto sono curioso. Mi dice che mi farà mandare una cassetta, ed è tutto top secret. Baci e abbracci.
Gli do l’indirizzo e dopo una settimana ricevo questa cassetta.
Apro il pacchetto. C’è scritto solo Pearl Jam. Il nome già non mi piace, ma quando metto la cassetta nello stereo e ascolto i due pezzi ‒ Even Flow e Alive ‒ sono sconvolto. Non è tanto la bellezza delle canzoni in sé, perché decisamente sono bellissime, quanto quel sound che non ho mai sentito.
Affitto una saletta con inclusa la batteria, metto la cassetta con i due brani nel mio walkman e ci suono sotto finché più o meno le so. Faccio anche alcune modifiche in un paio di punti, perché questo batterista che sento in cuffia non mi piace, troppo leggero nel tocco per i miei gusti.
L’unica cosa che associo a Seattle è che ci è nato Jimi Hendrix. Oltre a quello per me Seattle è un posto sperduto, di frontiera.
Quando abitavo con Lisa, dall’altra parte della strada viveva una biondina ossigenata. Ogni tanto andavo a casa sua ad ascoltare musica, quando Lisa lavorava. Ovvio che mi piaceva, piaceva a tutti, e forse a ripensarci non credo sia del tutto estranea a uno dei motivi per cui Lisa m’ha mollato.
Mi ricordo che Lea è di Seattle, e senza preavviso mi presento a casa sua per chiederle di questi Pearl Jam.
«Jeff, il bassista, è un mio compagno di liceo. Non aspettare che ti chiamino, vieni con me a casa dei miei a Seattle per la festa del 4 luglio, e li andiamo a trovare».
Detto fatto. Ma durante il viaggio in aereo, comincio a sentirmi strano. Ho freddo e i brividi.
Con un taxi arriviamo alla casa dei genitori di Lea, poco fuori città. Appena scendiamo mi fa fare un tour dell’esterno. La tenuta è di una bellezza sconcertante, circondata da pini secolari e piante montane: un miraggio dopo tutto quel cactus californiano. La proprietà, mi spiega Lea, è stata costruita negli anni Cinquanta da un grandissimo architetto autoctono, e affaccia proprio su Lake Washington, al quale si può accedere tramite un pontile e una spiaggia privata. Usa proprio questa terminologia, sembra quasi che voglia vendermela.
Quando mi presenta i suoi, che ci aspettano sul vialetto di ghiaia di fronte all’entrata principale, ho quaranta di febbre e praticamente gli cado in braccio. Vengo subito allettato in quella che un tempo era la stanza di Lea, con i poster e le foto del liceo.
Dopo un po’ bussano alla porta, è sua mamma che mi porta un brodo di pollo caldo fatto apposta per me.
Si siede ai piedi del letto, mi misura la febbre e mi ordina di riposare. È carinissima, forse pensa che sia il fidanzatino della figlia, non credo che abbia capito che ci saremo visti sì e no quattro volte prima di quel viaggio.
Uscendo dalla stanza si ferma sulla porta e promette di non rubarmi Lea più di tanto, ma ha bisogno di lei per gli ultimi preparativi della festa di domani, il 4 luglio. È un appuntamento fisso per la loro famiglia, ma quest’anno, con il fatto della guerra in corso e tutto il resto, hanno deciso di fare le cose in grande e ci saranno un centinaio tra amici e conoscenti che verranno a vedere i fuochi d’artificio e a godersi il barbecue sul grande prato in riva al lago. Bevo il brodo e crollo in un sonno disturbato, sudato. Ho incubi terribili ma percepisco il corpo fresco e rassicurante di Lea accanto al mio.
La mattina dopo, quando mi sveglio, la trovo in piedi davanti al grande specchio della sua stanza. Il look punk è magicamente scomparso, indossa un paio di shorts e un maglione in treccia di cotone entrambi verde smeraldo, i capelli biondo platino sono spazzolati e addomesticati in una coda di cavallo, alta e ben tirata.
Anche io sono cambiato: prima ero un essere umano, ora sono un cartoccio di pelle maleodorante e bagnata.
Misuro la febbre e ho ancora 39. La guardo uscire dalla porta e rassicurarmi che ogni tanto verrà a vedere come sto. Penso alla figura di merda con i suoi, all’appuntamento mancato con la band, e con un salto scendo dal letto. Mi vesto, e poco dopo la raggiungo nel grande giardino, come se niente fosse, se non per le gambe che a malapena mi reggono in piedi.
Quando la vedo, sta parlando con questo tizio abbronzato, che le cinge i fianchi con un braccio muscoloso e le sorride con decine di denti bianchissimi. Lea ci presenta e gli racconta del mio febbrone, poi lo manda a prendere da bere. Appena lui si allontana, mi dice che è una vecchia fiamma dei tempi della scuola, e da allora vorrebbe tornare con lei, ma se lo può scordare.
Quest’ultima parte la dice con un’intimità inaspettata, guardandomi dritto negli occhi, e osserva la mia bocca mentre compongo una frase che sia degna del momento.
Non riesco a dire nulla, perché in realtà se apro la bocca mi battono i denti, ma questo silenzio aumenta l’intensità del momento.
Siamo interrotti da lui che torna con tre birre in mano. «Ragazzi, andiamo a fare sci d’acqua nel lago.» Poi mi guarda: «Alex, noi andiamo. Qualsiasi cosa ti serve…».
«No no, macché. Io vengo con voi» ribatto a denti stretti.
Ho i brividi, tremo, ma mi metto il costume e salgo su questo motoscafo del padre di Lea, insieme ad altri tre o quattro amici loro. Una volta in mezzo al lago, mi danno una muta e mi spiegano che pure se è il 4 luglio, qui l’acqua può essere freddina. Non ho mai fatto sci d’acqua in vita mia, però so andare sullo skate e sciare, me la caverò, penso mentre me la infilo. «Chi va per primo?» Io.
Quando mi tuffo ho quasi un infarto. L’acqua non è fredda, è ghiacciata, saranno zero gradi. Cazzo, ma questi sono pazzi? Sono dentro l’acqua, in preda al panico, mi battono i denti e vorrei gridare, però Lea mi guarda e allora faccio finta di niente, nuoticchio disinvoltamente per scaldarmi. Mi tirano ’sto coso da tenere in mano, mentre il tizio abbronzato ha uno strano scintillio negli occhi e grida: «Guido io il motoscafo!».
Metto gli sci ai piedi e mi attacco forte. Il motoscafo parte con uno strattone e miracolosamente mi ritrovo in piedi.
Mentre il vento apparente si infila tra me e la muta, indicando con un dito ogni millimetro di pelle bagnata, non sento più niente, sono soltanto una coscienza a pelo d’acqua. Il corpo non è neanche più mio. E comincia a muoversi da solo, agilmente pure, fa destra e sinistra con gli sci.
«Bravo! Bravo! Bravo!» Lea applaude.
Dopo un altro paio di giri il motoscafo rallenta, mi aiutano a risalire a bordo, e non ho più un sintomo. Tra l’adrenalina e il ghiaccio dell’acqua sono completamente guarito, non ho più freddo, né un brivido. Tornati a riva, salgo di corsa nella stanza di Lea e misuro la febbre: 36,3. Solo un leggerissimo raschietto alla gola. Quella sera Lea saluta tutti, sfancula il quarterback abbronzato e usciamo. Mi porta al Rock Candy, il locale dei Pearl Jam.
A Los Angeles tutte le persone che incontravo erano come meteoriti partiti da un punto imprecisato dell’universo e andati a sbattere contro lo stesso pianeta. A Los Angeles avrei potuto tranquillamente scommettere che tutti, da quelli in una stanza a una festa, al pubblico di un concerto o ai musicisti dentro una sala prove, non fossero nati lì. Quindi a Los Angeles quello che mi legava a tutti era il fatto di provenire da altri luoghi, infatti la prima domanda che veniva spontanea a chiunque era: «Di dove sei?».
Invece qui a Seattle noto che è il contrario. Tutti sono nati e cresciuti qui, o poco lontano. È una gigantesca enclave di persone che si conoscono da sempre e che hanno una forma di protezione per il posto e per la loro identità comunitaria.
Quando Lea mi presenta Jeff, il bassista dei Pearl Jam, spiegandogli che sono in attesa di una chiamata per il provino, lui mi squadra, non si ricorda di avere ricevuto o ascoltato la mia cassetta, nonostante Chris mi avesse assicurato che sarebbe finita dritta nelle mani della band, senza passaggi intermedi. «Guarda, Alex, grazie, ma credo proprio che abbiamo trovato il batterista che cercavamo.»
Tiro un sospiro di sollievo, il destino ha sbagliato citofono, stavolta, e posso andare dritto per la mia nuova strada. Quando finalmente ce ne andiamo, sono felice di averli conosciuti, sono ragazzi puliti, semplici.
© 2022 HarperCollins Italia
© 2022 Alex Infascelli
Edizione pubblicata in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)