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Jim Jarmusch: «Faccio film e collage, suono e scrivo poesie. Tutto da dilettante»

Lo aspettavamo a Milano con il progetto musicale SQÜRL. Tutto rimandato al prossimo anno, ma la nostra conversazione sulla sua arte è rimasta e la condividiamo con voi

Autore Tommaso Toma
  • Il17 Marzo 2022
Jim Jarmusch: «Faccio film e collage, suono e scrivo poesie. Tutto da dilettante»

Jim Jarmusch e Carter Logan (fonte: ufficio stampa)

Jim Jarmusch iniziò la carriera di musicista in parallelo a quella di regista. Qualcuno si ricorderà della sua band new wave The Del-Byzanteens che fece uscire un unico album nel 1982, prima che il nostro diventasse un regista di culto con il film Stranger Than Paradise (’84).

Come tanti seguaci della sua arte, io ero pronto a godermi la sua performance negli spazi del teatro Triennale di Milano, in compagnia di Carter Logan, suo sodale nel progetto SQÜRL. Occasione mancata e rimandata al prossimo anno (con tappe ancora a Milano il 1° febbraio 2023 e il giorno prima a Bologna), con la sonorizzazione di quattro film dell’artista dadaista Man Ray girati tra il 1923 e il ’29: Retour à la raison, Emak Bakia, L’étoile de mer e Les mystères du château de Dé.

Diventa intrigante la sovrapposizione di cinema su cinema operata da un regista sempre coerente con se stesso come Jarmusch, che affronta anche le altre discipline artistiche con una particolarissima attitudine che scopriamo meglio durante questa nostra conversazione. Trovate l’intervista anche nel numero di marzo di Billboard Italia.

Come devo pronunciare esattamente SQÜRL? Un nome troppo cool.

Negli States, “scoiattolo” lo pronunciano con la u molto chiusa, mentre gli inglesi aprono un po’ di più quella vocale. Io ho pensato di inserirci una dieresi così esteticamente fa molto classic heavy band come Blue Öyster Cult o Motörhead (ride, ndr) e… pronuncialo comunque con la u molto chiusa, se vuoi.

Vorrei capire se per te suonare, comporre musica è una diversa dimensione dove esprimere la tua creatività e soprattutto un modo diverso di trovare l’ispirazione creativa.  

Domanda intrigante. Come puoi immaginare, fare un film non è un’operazione semplice, non ci siamo solo io e la mia testa, la mia camera, ma sono coinvolte un sacco di persone, prima, durante e dopo le riprese. Un film ha una lunga gestazione, almeno tre anni. Invece con le mie chitarre, con la musica ho un rapporto più diretto, immediato nella creazione. Anche se coinvolgo dei musicisti – sempre in un numero limitato – il nostro dialogo è fluido, con pochi filtri di mezzo. Devo però ammettere che nell’intimo ho sempre pensato che ci sia una profonda relazione tra fare film e creare musica… Ma per caso hai visto il mio piccolo libro Some Collages?

Devo dirti onestamente che non sapevo che facessi collage, interessante.

Ecco, per rispondere meglio alla tua domanda, Some Collages (edito da Anthology Editions, ndr) è alla fine una chiave per comprendere il modo in cui trovo l’ispirazione. In generale accumulo una notevole quantità di materiale – immagini, foto – poi faccio una selezione e procedo con una combinazione, decido come possano alcune immagini stare tra loro. Il modo in cui faccio musica è molto simile a questo procedimento per la realizzazione dei miei collage. Ma anche da filmmaker posso dirti che il punto di inizio è questo.

Sono curioso di sapere invece cosa ti attrae del modo in cui lavorava Man Ray.

Lui utilizzava la cinepresa come se fosse un “giocattolo”, una spinta certamente dettata dal surrealismo, dal quale ha attinto la forza creativa di rendere eccezionali gli oggetti del quotidiano e la capacità di distorcere il tradizionale linguaggio visivo e scombinare quello narrativo.

Man Ray era un artista totale: fotografo, pittore, scultore, lavorava per la pubblicità e per le riviste di moda, era un illustratore… Ha lavorato e collaborato con diversi artisti fondamentali dell’avanguardia da Marcel Duchamp a Férnand Léger per il magnifico Ballet Mécanique. Io, al suo cospetto, mi considero un “dilettante” (pronunciato proprio così da Jurmush, ndr). Peraltro in tanti definivano così l’attitudine di Man Ray, e a me calza benissimo: faccio film, collage, suono, scrivo poesie. Da dilettante.

Jim Jarmusch - intervista - 2
Mentre stavi parlando mi sono passate per la mente le magnifiche immagini in bianco e nero di alcuni tuoi film: Stranger Than Paradise, Down By Law o Dead Man, complice anche il tocco di un direttore della fotografia come Robby Müller. Un bianco e nero bello come quello di Man Ray.

Oh, troppo gentile. Non mi sono ispirato direttamente a lui ma di sicuro è stato un corroborante, come mi ha sempre ispirato quella sua volontà di interazione con poeti e artisti da Robert Desnos a Mallarmé. All’epoca girai in bianco e nero, che qualcuno dava per morto, ma è sempre importante il modo in cui ci serviamo del mezzo. Al tempo di Man Ray davano per morta la pittura e come vediamo non è affatto così.

Un peccato che in rete circolino solo in pessima qualità i cortometraggi di Man Ray da L’étoile de mer del 1928 che prima hai nominato a Emak Bakia (1926), Retour à la raison (’23) e Les mystères du château de Dé (’29).

Sì, vero, ma noi abbiamo fatto un’operazione di restauro digitale molto accurata, lo noterai nello show alla Triennale. Confido in un’uscita in DVD prossimamente.

Prima ho nominato il compianto e immenso direttore della fotografia Robby Müller, a cui tempo fa hai dedicato il tuo progetto SQÜRL. La cosa curiosa è che qui giochi con delay e riverberi evanescenti leggerissimi, non ti lasci andare a quella sorta di stoner rock pieno di droni e rumori come accade negli altri tuoi lavori. Come mai?

Questo lavoro non nasce come album a sé ma come colonna sonora del bel documentario Living the Light – Robby Müller (girato dalla collega e connazionale di Müller, Claire Pijman, ndr). Ti dirò, Robby al di là del suo amore per il rock’n’roll o il krautrock aveva una passione per la musica classica, i quartetti d’archi e in generale quel tipo di sound che definirei “landscape music”. È a questo tipo di musica che mi sono ispirato per omaggiarlo.

Com’è cambiato nel tempo il tuo modo di selezionare musica per i tuoi film?

Nel corso del tempo ho avuto la fortuna di lavorare con la complicità di alcuni grandi musicisti come Tom Waits, Neil Young, Wu Tang Clan… Quando creo la sceneggiatura in generale ho già in testa delle idee per la musica che potrebbe accompagnare il film che girerò.

Ma devo dirti che ultimamente preferisco lavorare io direttamente sulla colonna sonora. Come avrai notato, alcuni miei recenti film come Only Lovers Left Alive, Paterson e l’ultimo The Dead Don’t Die sono musicati da me e dai musicisti con i quali suono. Ho iniziato nel 2009 con The Limits of Control che aveva già una colonna sonora (composta in parte dalla band nipponica Boris, ndr) ma c’erano dei particolari momenti sonori del film che non mi soddisfacevano e così ho cominciato a comporre direttamente con Carter Logan.

Curiosità: come scopristi invece la musica di Mulatu Astatke? grazie alla colonna sonora di Broken Flowers è poi nato un vero e proprio culto in tutto il mondo occidentale per questo compositore di Ethio-jazz.

Mi piace da sempre un sacco la musica che proviene da qualunque zona del Mondo. In particolare, parlando di musica africana, colleziono da anni i dischi dell’etichetta Éthiopiques. Quando ascoltai per la prima volta la produzione di Astatke me ne innamorai immediatamente. Sai, mi succede anche con i film. Non importa da quale zona del mondo provengano, ma se c’è un qualcosa che mi colpisce mi cattura per sempre. Immagino, e spero, che sia così per molti.

Mi racconti come nacque quella scena culto e pazzesca in Ghost Dog dove il mafioso italoamericano sta rappando su Cold Lampin’ dei Public Enemy prima che venga ucciso?

Diedi la traccia a Cliff Gorman e gli dissi: “Ascoltala, il modo in cui tu reagirai a questa canzone dei Public Enemy lo girerò tale e quale, senza cambiamenti”. Beh, Cliff, che era davvero un grande attore scomparso da tanti anni, arrivò sul set e si mise a ballare e rappare il testo che aveva imparato a memoria. Fu fantastico.

Poi immagina che combinazione non voluta ma perfetta tra quel carattere e l’iconografia del rap USA degli anni ’90 che richiamava spesso al mondo criminal-mafioso, tipo i Capone-N-Noreaga che arrivavano dal Queens. Esattamente come era accaduto nella scena reggae, ti ricordi Dillinger?

Certo, la mitica Cocaine in My Brain!

Esatto (ride, ndr). Ecco, ero felicissimo: senza volerlo, tutto combaciava!

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PAOLOOO