Fashion

L’ora della ricreazione: per Giorgia Andreazza la moda è sperimentazione e sound

Abbiamo incontrato la designer veneta per parlare di creatività, di moda sostenibile e di sviluppo tecnologico

Autore Gabriel Seroussi
  • Il2 Novembre 2022
L’ora della ricreazione: per Giorgia Andreazza la moda è sperimentazione e sound

Fonte: Giorgia Andreazza

La moda è ricerca: questo è il messaggio che trasmette Giorgia Andreazza attraverso le sue collezioni. Dall’uso della tecnologia al ruolo innovativo dei modelli, la designer classe 1995 ama cercare nuovi linguaggi con cui esprimere la propria creatività.

La presentazione della collezione DRRIIN PUPPY avvenuta durante la fashion week milanese è stata una dimostrazione chiara di tutto ciò. Una vera e propria performance in cui i capi progettati con sensori che reagiscono al movimento di chi li indossa creando dei suoni, hanno creato una sorta di sinfonia contemporanea. Il sound è quindi il linguaggio universale che connette i corpi e dà voce all’espressività dei capi e di chi li indossa.

Abbiamo incontrato Giorgia Andreazza per parlare di creatività, di moda sostenibile e di sviluppo tecnologico.

(Fonte: Giorgia Andreazza)
Partirei dalla tua storia personale. Sei veneta ma vivi a Milano da molti anni. Nonostante ciò, sei molto legata alla tradizione artigianale del tuo territorio. Quando hai iniziato a interessarti di moda?

Da sempre in realtà. Mia mamma aveva in casa un laboratorio e quando ero bambina andavo con le mie Barbie a darle un po’ fastidio, le rubavo i ritagli. Ad Halloween e a Carnevale avevo dei costumi pazzeschi cuciti da mia madre. Sono fortunata ad aver avuto una famiglia molto creativa.

Poi alle superiori sono andata in un istituto professionale di moda. Era lontano circa un’ora e mezza da casa mia in autobus ma è stata un’ottima scelta. Dal terzo anno avevamo la possibilità di creare i nostri primi look. In quel momento ho pensato: questa è la mia roba. Ho cominciato a frequentare i mercatini, ad acquistare e vendere abiti di seconda mano.

Dopo le superiori ho proseguito i miei studi alla Naba a Milano dove mi sono laureata a pieni voti. Come tesi per la fine della triennale portai un lavoro di cui sono molto fiera e che rappresenta bene il mio approccio creativo. In quel momento storico erano di attualità gli attacchi terroristici dell’Isis. Realizzai una collezione i cui capi erano composti da materiali ignifughi, antiproiettile e antitaglio per cercare un compromesso tra il concetto di protezione e di design. Mi piace prendere spunto dall’attualità, penso sia una mia forza.

Le università professionalizzanti come la Naba secondo te sono un passo necessario o utile per farsi spazio nel mondo della moda?

Io qualsiasi cosa debba fare cerco di farla al massimo. Quindi, ti dico, per come sono fatta io, la Naba è stata un’esperienza di cui ho fatto tesoro. Spesso ero convinta di saperne più dei miei stessi professori e talvolta era anche vero. Ma la mia indole mi ha spinto ad approfondire e a dare il massimo. La Naba è stata uno stimolo continuo di fare di più per me. Certo, se uno si approccia a questi istituti con sufficienza e senza motivazioni non ti sono di nessun aiuto.

Quando la tua passione per acquistare e rielaborare a modo tuo abiti di seconda mano è iniziata ad essere un lavoro?

È successo tutto in velocità per cui è difficile stabilire un momento preciso. Ho sempre cercato di promuovermi da sola, scrivendo a negozi e mandano mail. A un certo punto si è iniziato a creare del passaparola attorno ai miei lavori e ho iniziato a spedire la mia roba in giro. Poi cinque anni fa ho aperto il mio e-commerce e le cose sono cambiate.

Giorgia Andreazza - intervista - 3
(Fonte: Giorgia Andreazza)
Quali sono le costanti che caratterizzano il tuo lavoro? E quali sono invece i cambiamenti avvenuti in questi anni?

Sono cambiate tante cose. Una costante è sicuramente il concetto di upcycling. Certo, se prima giravo i mercatini e modificavo i capi che mi piacevano ora c’è una ricerca meticolosa tra i materiali di scarto delle grandi aziende. Soprattutto nel mio territorio – il Triveneto – ci sono moltissime industrie che producono enormi quantità di materiale che resta inutilizzato.

Il mio lavoro consiste nel riciclare e dare nuova vita ai tessuti. Però lo spirito è lo stesso di quando riciclavo i capi di seconda mano dei mercatini. Un’altra cosa che è cambiata è che prima realizzavo abiti senza pensare alla vestibilità o alla resistenza. Ora l’approccio è più maturo. Devo conciliare creatività e commerciabilità.

La presentazione della tua ultima collezione ha un uso innovativo della tecnologia. Com’è nata l’idea di far suonare i tuoi capi d’abbigliamento?

Ho conosciuto Luca Pagan e Federico Garbin – i due sound designer che hanno lavorato al progetto – circa un anno fa. Gli avevo affidato l’ambiente musicale della presentazione della collezione invernale. Da quell’occasione abbiamo iniziato a conoscerci e a capire che avevamo molti punti in comune.

Eravamo appassionati del mondo dei rave e della notte in generale. Ci siamo detti: visto che parliamo lo stesso linguaggio, perché non facciamo qualcosa insieme? Abbiamo iniziato a fare delle sperimentazioni sulla reattività di alcune fibre, a cablare gli abiti attraverso delle vernici particolari.

L’idea era quella di utilizzare un linguaggio universale come quello sonoro per comunicare un messaggio di unione. Volevamo porre al centro il concetto più puro di dialogo. Per questo ho scelto come tema della collezione quello dell’intervallo scolastico. Un momento di interazione e confronto. Il dialogo avveniva tra i modelli stessi e tra i modelli e il pubblico. L’effetto è stato davvero bello.

Per un brand emergente quali sono le opportunità e i limiti di stare in Italia?

Questa è una domanda che mi pongo di continuo. La forza dell’Italia è sicuramente l’artigianalità. Solo nel mio territorio, a poche ore da Milano, ho accesso ad aziende e materiali incredibili. Avendo lavorato nelle campagne vendite anche di altre aziende penso che un punto di forza dell’Italia sia anche la nomea che abbiamo all’estero. Soprattutto in oriente tutto ciò che è italiano viene esaltato.

Invece quello che trovo che ci remi contro è che i brand emergenti sono pochi. Vedo che a Londra ci sono tantissimi marchi che si autoproducono. L’Italia è legata a un tradizionalismo nel mondo della moda che ci rallenta. Per non parlare dell’aspetto economico. Purtroppo in Italia il sostegno alle aziende emergenti è davvero inesistente.

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