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Alex Britti: «La scena indie romana? Mi piace ma spesso pensa più al testo che alla musica»

Il 18 luglio Alex Britti riparte con uno speciale live nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica a Roma. Lo abbiamo intervistato

Autore Billboard IT
  • Il16 Luglio 2020
Alex Britti: «La scena indie romana? Mi piace ma spesso pensa più al testo che alla musica»

Alex Britti. Foto: Fabrizio Cestari

Ritornare a suonare dal vivo per uno che con la chitarra è praticamente uscito dalla pancia di mamma è festeggiare qualcosa di molto importante. Negli ultimi anni Alex Britti, romano doc, classe ‘68, di cose da ricordare e festeggiare ne ha avute molte. È diventato papà di Edoardo e un paio di estati fa ha festeggiato i cinquant’anni o, come dice lui, ha superato “la mezza piotta”. Dopodomani, sabato 18 luglio, Alex suonerà alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica, un concerto per ricominciare e dare il segnale che la musica c’è (e non se ne può fare a meno).

Sei carico, Alex?

Sì, sono molto carico. Ti posso dire che è un po’ come essere tornati vergini, come se si ricominciasse da capo. La cosa buona è che stiamo ripartendo. Non so che pubblico mi troverò di fronte, e molto probabilmente neanche il pubblico sa a che tipo di spettacoli assisterà. Sono curioso perché ho visto qualche collega che ha ricominciato con la location semivuota, non perché non avesse venduto biglietti, ma perché le nuove restrizioni impongono distanze sociali e capienze fino ad un certo numero.

Durante il periodo del lockdown hai cantato al concerto del Primo Maggio. Cosa ricordi di quella giornata? E che effetto ti fa vedere che molte attività sono ripartire mentre musica e teatro continuano a fare molta fatica?

Del Primo Maggio ricordo una specie di stato di trance. Quando attacco la chitarra sto dentro la musica, però ricordo in modo netto l’arrivo in piazza San Giovanni. Quella è una piazza famosa che conosciamo tutti, che non dorme mai. In quell’occasione c’era un silenzio assordante, non era una bella sensazione. Poi ho suonato ed è uscita un po’ di rabbia, di angoscia: la musica non mente mai. Noi musicisti siamo abituati ad essere trattati come dei lavoratori di serie B, come se per il fatto che fai un lavoro che nasce come una passione puoi non essere trattato come gli altri. Ci sono un sacco di famiglie che non percepiscono gli stipendi, quindi il mondo dello spettacolo sta ripartendo piano piano e come al solito dobbiamo fare da soli, non ci sono aiuti. Vorrei che ci fosse un po’ più di chiarezza: la musica è cultura.

Tu fai parte di una generazione di cantautori che hanno scritto canzoni che rimarranno. La nuova scena romana vive in questi ultimi anni di un’ondata di artisti che spaziano tra l’indie e il pop. C’è qualcuno che hai ascoltato e che ti è piaciuto particolarmente?

In generale mi piacciono le vibes di questo indie pop romano – Franco126, Carl Brave, Ketama126 – che fanno cose interessanti, soprattutto quando nei loro testi scrivono in modo schietto. Di Franco126 ho apprezzato particolarmente Brioski, un pezzo molto divertente. Mi sembra che si faccia molta attenzione alla forma canzone e al testo, ma meno alla musica, ma credo sia un problema generazionale. Magari non conoscono il jazz e non sanno suonare uno strumento – il che va bene, fa parte del periodo storico. Ma se non hai la cultura musicale, scrivi una canzone e poi non riesci a rinnovarti. Vedo molti che dopo un singolo di successo non riescono a confermarsi, e non solo nel pop o nell’indie ma anche nel rap.

Una canzone a cui sei particolarmente legato è Oggi Sono Io, con cui vincesti nel 1999 fra i Giovani al Festival di Sanremo e che ha anche interpretato una certa Mina. Fu anche la prima volta che arrivasti alla prima posizione in classifica. Che ricordi hai di quel Sanremo e perché hai definito “magica” questa canzone?

Perché ha un qualcosa dentro che viene da lontano e che parte da uno studio accurato dell’armonia. È stata una sfida complicata a livello jazzistico. Ritornello e strofa hanno un mood molto jazz, Parlato però sincopato che sembra quasi bebop. Volevo fare una melodia che crescesse in modo cromatico, cioè di semitono in semitono. La seconda sfida era non farla diventare una cosa da “intrippati” ma una cosa pop. I discografici erano titubanti sulla canzone. Mi dicevano che per il Festival era rischiosa perché “sofisticata”. Sono andato a Sanremo senza un contratto, soltanto una stretta di mano. Quando videro che ero primo dopo le prime due serate arrivarono i grandi capi da Milano a farmi firmare il contratto. Il contratto di 15 anni con Universal lo firmai il venerdì pomeriggio e la sera feci l’ultima esibizione e vinsi. Sapevano che era una bella canzone ma non ci credevano come successo commerciale. Quel pezzo è stato nove settimane al primo posto in radio.

Se solo qualche mese fa mi avessero detto che avresti collaborato con Salmo non ci avrei creduto, invece poi è uscita Brittish. Soddisfatto della sperimentazione di due mondi diversi tra loro?

Sono molto soddisfatto perché non sono mondi così diversi. Tutti i musicisti hanno un denominatore comune, e Salmo prima che un rapper è un grande musicista, perché rappa le cose che scrive, che fa, che produce. Questa è la cosa che ci lega. Salmo è un musicista, e pure bravo.

Come procede il progetto del nuovo album? Ci siamo lasciati con Una Parola Differente, di cui abbiamo dato l’anteprima video. Farai uscire qualche altro singolo e poi li racchiuderai tutti in un album?

Farò forse due singoli e li racchiuderò in un album. In momenti complicati come questo è meglio non uscire. Ora escono cose estive, leggerine, e non mi va di stare in gara col reggaeton. Brittish aveva un suo perché, come Una Parola Differente. Il Covid ha fatto chiudere tutto, ma quest’anno più che mai c’è bisogno di spensieratezza, di leggerezza e servono i tormentoni. Mi sto concentrando sul live. Ho lasciato spazio, me li godo da spettatore.

Cosa ci dobbiamo aspettare da questo concerto?

Ho rifatto anche la band, ho tenuto solo il bassista. Viene dal reggae. Poi ho preso due giovanissimi della scena romana jazz. C’è un movimento che si chiama nu jazz e c’è molto fermento. I giovani hanno entusiasmo. Quelli della mia età con un occhio guardano il palco e con l’altro guardano il Corriere dello Sport: spesso sono annoiati. Io sono ancora arrapato dalla chitarra. Basso, chitarra, batteria e tastiere. Quattro, pochi, maledetti e subito. E abbiamo due ragazze che cantano. Non c’è computer.

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