Asaf Avidan: «Dalla cura dell’ulivo ho re-imparato a strutturare la musica»
Il nuovo album del cantautore israeliano è una raffinata collezione di brani che esplorano i temi della frammentazione del sé e dell’accettazione dell’idea che tutto ha una fine. L’abbiamo intervistato
Difficile, se non impossibile, riassumere in una formula sintetica la natura del nuovo album di Asaf Avidan, Anagnorisis, uscito l’11 settembre per Telmavar Records / Artist First. Difficile dal punto di vista musicale perché, laddove il precedente The Study on Falling si concentrava su un omogeneo sound folk/Americana, il nuovo lavoro muove si muove con forza centrifuga in tante direzioni diverse e complementari. Ma sarebbe anche difficile dal punto di vista dei contenuti, vista l’ampia, raffinata dissezione di temi che investono l’idea di molteplicità del sé e di accettazione della caducità di tutto ciò che ci circonda. Anche attingendo con eleganza a concetti filosofici, come testimonia il sofisticato titolo di ascendenza aristotelica.
Anagnorisis è un’opera di pop d’autore dal vasto respiro culturale e musicale, confezionata con quella cura dei più piccoli dettagli che è propria dei talenti puri. Con la sua parlantina ricca e forbita, Asaf ci ha concesso questa illuminante conversazione sulla sua evoluzione personale e artistica di cui l’album è rappresentazione sonora.
La prima cosa che si nota ascoltando Anagnorisis è la grande qualità delle canzoni, considerato che hai fatto tutto nel giro di appena un anno. Come hai gestito il tempo per la realizzazione di quest’album?
Sai, per me invece un anno non è affatto poco tempo. In genere il mio processo di scrittura per un album dura tre settimane. Ci sono due ragioni per questo. Una è che sono una persona molto impaziente. La seconda è che la mia filosofia è: come si può tradurre un’emozione in musica se quell’emozione deve durare uno o due mesi perché ciò avvenga?
In questo caso mi ero preso un anno sabbatico lontano dai concerti, anche per rivedere la struttura della mia vita, sia all’esterno che all’interno di me. Così ho scelto questa casa nelle Marche, vicino a Pesaro. Ero circondato da ulivi, vitigni, alberi da frutta, cavalli, campi. Lentamente ho imparato a fare il contadino, a tagliare correttamente gli ulivi, a piantare gli alberi… Sono cose che ti fanno considerare il tempo diversamente: quando pianti qualcosa e ti immagini come sarà fra vent’anni, tutta la tua concezione del tempo cambia. Quando impari che devi tagliare parecchi rami a un ulivo perché l’aria e la luce possano entrare nella pianta e rafforzarne le radici, tutti questi aspetti tecnici finiscono per diventare metafore di come strutturare una canzone.
Volevo quindi prendermi il giusto tempo. La cosa interessante è che in quella quiete, tante sfumature che non avevo mai notato prima hanno cominciato a venire a galla. Tutto l’album parla di queste sfumature dell’essere, compreso il senso di impotenza, di assurdità, di futilità. Ma senza cinismo.
Le canzoni comunicano ora un senso di rinascita, ora una certa disperazione, oppure entrambe le cose insieme. Qual è il tuo personale equilibrio fra questi due poli?
Ciò che l’album vuole comunicare è che non sono idee opposte, non c’è una scala di valore in cui una sta in alto e l’altra in basso. Ti dirò: più mi guardo dentro, più ciò che vedo diventa sfuocato. Se prendi il tuo smartphone quello che vedi è un telefono, a livello macroscopico. Poi lo guardi con una lente e vedi le particelle di polvere. Poi lo guardi con un microscopio elettronico e vedi le molecole. Con un acceleratore di particelle, infine, intravedi la struttura dell’universo.
Quando raggiungi quel livello, ciò che vedi è il caos, la molteplicità, o al limite la statistica. E questo è ciò che sentivo dentro di me: non c’era un’opposizione, solo una molteplicità. La speranza pura non esiste: c’è sempre una sottocorrente di paura per qualcosa che finisce, per esempio. Tutte queste cose sono simultanee.
L’album è il mio viaggio per incoraggiarmi a vederle. C’è una grande fragilità nella forza, e una grande potenza nel senso di disillusione. E questa è una prospettiva molto confortante: non dobbiamo aspettare che arrivi il cambiamento, è già lì da qualche parte.
Uno dei brani di Anagnorisis che preferisco è Earth Odyssey, sia come musica che come testo. Mi puoi dire di più sull’origine di questo pezzo?
Ci sono due aspetti. Il primo è il tributo a Bowie: ovviamente il titolo si riferisce a Space Oddity. Ma è anche un inno al senso di impotenza umana, all’idea che tutto finisce e che tutto ciò che facciamo è alimentato dalla paura di questa mancanza di senso. Bowie mostrava sempre una sorta di ironia, di personaggio, di colore particolare. Così volevo personificare queste diverse voci che si sfidano fra loro: una che trova speranza, un’altra che la distrugge; una dallo sguardo cinico, un’altra più serenamente sincera.
Noi siamo fatti per cercare forza e speranza laddove non ce n’è affatto. E questa è la bellezza, è ciò che ci rende speciali. La nostra consapevolezza ci consente di capire che avremo una fine, come tutto ciò che facciamo e creiamo. E il mondo sarà inglobato dal sole nella sua espansione a gigante rossa, e il sole poi finirà a sua volta, e l’universo infine si raffredderà… Noi sappiamo tutto questo, e tuttavia amiamo, creiamo, urliamo contro un universo indifferente.
Mi racconti la storia che ha ispirato Lost Horse? So che è stato un evento piuttosto triste per te.
Siccome San Bartolo è un parco nazionale, non è possibile costruire vere e proprie recinzioni. Per i cavalli usiamo semplicemente un paio di assi di legno che fanno sì che gli animali selvatici possano muoversi liberamente. I miei cavalli stanno in un grosso terreno appena prima del dirupo. Probabilmente un branco di lupi deve avere inseguito i cavalli e una di loro, di nome Ariadne, per lo spavento dev’essere caduta giù in mare. L’abbiamo cercata dappertutto per giorni con i Vigili del Fuoco, anche con droni e barche. Ma non abbiamo mai trovato il corpo.
Così tornai in studio e scrissi su un pezzo di carta quelle due semplici parole, “lost horse”. Dopo un po’ scoppiai a piangere, dovevo buttare fuori tutto: mi resi conto che lo stavo facendo non solo per Ariadne ma per tutte le perdite che avevo accumulato negli anni, che si tratti di amori, di sogni, di diverse versioni di noi. Ma sono cose che non perdiamo davvero: diventano fantasmi che portiamo con noi e che diventano più “pesanti” col passare del tempo. So che parole del genere suonano depresse, ma io non lo sono affatto: anzi, c’è un senso di accettazione di queste cose.
Il video della title track Anagnorisis, che abbiamo avuto il piacere di ospitare in anteprima, è stato diretto dal grande Wim Wenders. Voglio sapere tutto su questa bella collaborazione.
Wim un giorno venne a sorpresa a un mio concerto a Berlino. Venne nel backstage per salutarmi e dirmi che era fan della mia musica. Prima di fare il musicista mi occupavo di cinema: ho studiato i film di Wim al liceo e all’università. È stato ovviamente molto emozionante incontrarlo, non per la sua notorietà ma perché nei suoi film c’è molta riflessione sul rapporto fra sé e gli altri, per cui è interessante avere questo tipo di conversazioni con lui.
Siamo rimasti in contatto finché qualche mese prima della pandemia mi scrisse dicendo che aveva un progetto per un cortometraggio in cui voleva che recitassi e suonassi. Il progetto fu attivato e iniziammo a lavorare sulla sceneggiatura ma poi è scoppiata l’emergenza Covid e tutto si è fermato.
Più avanti io l’ho ricontattato e gli ho detto: “Beh, in questo periodo devi avere parecchio tempo libero, quindi perché stavolta non lavoriamo sul mio progetto?”. Sapevo che amava la danza moderna perché aveva fatto il film Pina. Non dovette neanche pensarci. Abbiamo discusso alcuni aspetti ma è fondamentalmente un lavoro di Wim.
Il titolo Anagnorisis ha un significato profondo che viene dal teatro greco e dalla filosofia di Aristotele. Quando e come hai deciso che una parola così sofisticata fosse quella giusta per intitolare il tuo album?
Come dicevo, mi sono sottoposto a una profonda dissezione di me stesso ma ciò che vedevo era tutto sfuocato. La cosa mi innervosiva e mi faceva sentire privo di talento e di sincerità: com’era possibile che non riuscissi a trovare la mia voce, la mia struttura, la mia identità?
Poi mi sono trovato a leggere la Poetica di Aristotele: mi interessava molto la sua prospettiva sulla moralità dell’arte. Ho trovato questa parola, “anagnorisis”, che nel teatro greco rappresenta il momento in cui un personaggio scopre la sua vera identità. E pensavo che ciò si potesse applicare a quello che stavo vivendo, ma poi mi sono reso conto che è una cosa che funziona solo nel teatro, che non è una vera rappresentazione della vita ma una sua versione esagerata e ristretta.
Così quando ho capito che non dovevo imporre a me stesso una struttura univoca, è diventato quasi divertente dar voce a tutti i personaggi “in lotta per il trono” dentro di me. La mia rivelazione è stata che non c’è nessun vero momento di rivelazione.