Interviste

Chilly Gonzales: «Nei classici del pop c’è una natura quasi divina»

Il talento multiforme del pianista tornerà in Italia per una data unica a Milano il 6 dicembre. L’abbiamo intervistato

Autore Piergiorgio Pardo
  • Il26 Novembre 2022
Chilly Gonzales: «Nei classici del pop c’è una natura quasi divina»

Chilly Gonzales (fonte: ufficio stampa)

Il 6 dicembre ritorna in Italia, con una data unica al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano, Chilly Gonzales. Talento multiforme. Pianista su un oceano di ironia. Entertainer in accappatoio e accademico irriverente.

Nella sua eterogenea discografia i dischi di piano solo spiccano accanto all’eleganza flessuosa di Ivory Tower (in collaborazione con Boys Noize), al lussureggiante pop orchestrale di The Unspeakable Chilly Gonzales e all’elettronica lo-fi dei primi dischi su Kitty Yo. Ma ci sono anche un album con Jarvis Cocker pubblicato dalla Deutsche Grammophon, la classicità moderna di Chambers (con il Kaiser-Quartett), il recente esperimento con Plastikman Consumed in Key e persino un album di melodie natalizie come A Very Chilly Christmas.

Per questo tour Chilly Gonzales promette «una vera e propria esplosione di tutto il mio immaginario e la mia estetica», ma soprattutto annuncia che «la musica è tornata». Ecco la nostra intervista.

Chilly Gonzales (fonte: ufficio stampa)
Music is back, possiamo dirlo?

A volte si scrive musica per raccontare la realtà, altre per augurarsela. Music is back sono i due anni trascorsi a desiderare di suonare guardando le persone negli occhi. Non tutti hanno la possibilità di parlare attraverso la musica, né tutti i linguaggi creano connessioni così potenti. Comunicare suonando è un privilegio, una felicità ritrovata.

L’ultima volta che sei stato in Italia era il 2017 per alcuni acclamatissimi concerti a Roma e Milano. Che ricordo conservi di quelle date?

Pubblico splendido, grande atmosfera, e una versione del tema Il Padrino, col quartetto d’archi e me che ci rappavo sopra. Incredibile che siano già trascorsi cinque anni. La pandemia ha accelerato tutto.

E per la prossima (purtroppo unica) data italiana al Teatro Lirico di Milano che sorprese ci riservi?

Durante la pandemia ho scritto tanta nuova musica, dunque ci sarà una nuova band a suonarla con me e lo show sarà un’esplosione del mio immaginario attuale. Le sorprese riguarderanno le composizioni, i musicisti in scena, l’allestimento del palco, la scaletta. Ovviamente non posso dirti di più, altrimenti che sorprese sarebbero?

Fra le nuove cose che hai scritto c’è Wonderfoule, un pezzo con Arielle Dombasie. Stai lavorando a nuovo materiale sullo stesso filone?

È un pezzo nato in un momento di vera e propria infatuazione per la Francia. Mi sono divertito moltissimo a scrivere e rappare in francese e collaborare con artisti francesi che stimo. È un repertorio che conto di ampliare quanto prima.

Quest’anno è uscito anche Consumed in Key, tua rielaborazione di un classico della sperimentazione elettronica, Consumed, di Richie Hawtin / Plastikman. Com’è stata la lavorazione del disco?

A dire il vero, mentre lavoravo ad aggiungere le mie parti di piano alle tracce originali di Consumed non sapevo nemmeno che faccia avesse Plastikman. Ho lavorato con un fantasma, interagendo direttamente con la sua musica. Ci siamo incontrati a lavoro finito ed è stato bello, ma non siamo diventati amici.

Però conoscevi bene Tiga, che è stato produttore artistico del progetto. Tra l’altro il 26 ricorre il ventennale dalla prima pubblicazione della International Gigolo, guarda caso un disco di Hawtin, con Sven Väth. Qual è oggi il tuo rapporto con la musica elettronica?

Tiga ha fatto da collante. Conosceva sia me che Richie e ha mediato fra di noi come un diplomatico dell’ONU. Della musica elettronica ad essere sincero non mi importa niente, anzi il più delle volte la trovo dozzinale. So poco o niente della stessa International Gigolo. A parte Consumed in Key, che è stata una esperienza interessante, ho collaborato con Boys Noize e con i Daft Punk, ma i miei ambiti rimangono pop, rap, classica e jazz.

A proposito di Daft Punk, cosa mi racconti della tua partecipazione a Random Access Memories?

Beh, quando ho visto come sono le loro facce senza caschi ho capito perché li indossano… Per il resto sul contratto che ho firmato con loro c’è nero su bianco che non posso rivelare nessun particolare delle session, per non rischiare di divulgare dei segreti. Per cui posso solo dirti che è stata un’esperienza elettrizzante, ma loro senza casco sono proprio brutti.

Rimaniamo in spirito natalizio. Mi colpisce la resa pianistica “in tonalità minore” delle canzoni di Natale nel tuo album A Very Chilly Christmas. Come ti è venuto in mente?

Ho col Natale un approccio malinconico. C’è della malinconia anche nelle canzoni natalizie, anzi, in qualche caso, l’armonia in maggiore sembra forzata. Perciò, poiché si tratta di melodie talmente famose da essere sempre riconoscibili, ho voluto giocarci e fare un disco che in realtà non è triste, ma basato sul divertimento.

Tra l’altro c’è un’ospitata di Jarvis Cocker che canta un paio di pezzi. Con lui hai anche inciso un album. Cosa vi accomuna?

Siamo amici dal 2004 e ci siamo sempre frequentati fino ad arrivare a Room 29, che abbiamo inciso insieme nel 2017. Jarvis è una persona cordiale e generosa, una delle figure più importanti di quella che io chiamo la mia famiglia musicale.

A proposito di famiglia musicale, che rapporti hai con la scena canadese?

Ho con Feist un’amicizia e una collaborazione artistica che dura da sempre. Canta anche lei in A Very Chilly Christmas. Poi c’è Peaches. A parte le collaborazioni discografiche, contano i tour che abbiamo fatto insieme nei primi anni 2000. Abbiamo insegnato uno all’altra come stare sul palco, facendo a gara nell’andare oltre, a volte anche troppo.

Come va con la tua accademia, la Gonzervatory?

Ancora non ho buone notizie purtroppo. Veniamo da un periodo difficile e su un’impresa totalmente autofinanziata come quella abbiamo dovuto fare un esercizio di realtà e sospendere le lezioni. Nell’ultimo periodo però sembra che stiano maturando le condizioni per una riapertura.

Le tue masterclass su Bad Guy e altri classici pop sono interessanti e spassose. Cosa ti diverte di più nel realizzarle?

In una canzone pop convivono un aspetto logico-matematico e un altro magico e imponderabile. Si può riuscire a decodificare una canzone, capire come è stata scritta, ma non puoi scrivere un’altra Bad Guy, nemmeno conoscendone ogni dettaglio. La musica non obbedisce alle formule. C’è una natura quasi divina nei classici del pop.

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