Covo è la crew 2.0 che devi conoscere
Una factory creativa multidisciplinare partita da Pisa e arrivata fino al Coachella e che spazia dalla musica, ai visual fino al tech. Ce la siamo fatta raccontare da Filippo Fernando Palla, uno dei suoi fondatori
C’è una crew 2.0 che si muove tra musica, visual e tech che devi assolutamente conoscere: si tratta di Covo, una factory creativa poliedrica e multidisciplinare (composta da Filippo Fernando Palla – Fenice -, Giulio Gentile – Ana -, Niccolò Abate – Sylathas -, Federico Sodini – Delt4 – e Luigi Giardino – Gardenn) di base a Pisa – dove nasce nel 2016 – ma che col tempo si è fatta notare anche al di fuori dei nostri confini. Ad esempio a Parigi, piazzando la bandierina italiana a IRCAM, l’ala di Centre Pompidou dedicata alla ricerca legata alla produzione musicale. O ancora al Coachella, dove hanno curato i visual stage dei Paris Texas. Per conoscere meglio questa realtà ce la siamo fatta raccontare da Filippo Fernando Palla, uno dei fondatori di Covo.
Intervista a Filippo Fernando Palla di Covo
Come e quando nasce Covo?
Diciamo che la nostra è una storia un po’ particolare. Formalmente Covo nasce nel 2016, ma all’epoca non era quello che è ora. Era un insieme di creativi che letteralmente si trovavano in una cantina – la mia – fondamentalmente per rappare. Era un bel periodo quello. Poi nel 2018-19 ci siamo ufficializzati a livello musicale, e da lì ci siamo espansi e siamo diventati molto più poliedrici, quindi abbiamo inserito nel gruppo i due designer e il videomaker. Ora siamo in cinque. Io sono anche direttore creativo, quindi curo sia la parte musicale che quella di visual e sviluppo tech.
Fate delle cose decisamente all’avanguardia: c’è dietro uno studio o siete autodidatti?
Noi siamo completamente autodidatti. Secondo me è stata la costante immersione in contesti artisti e creativi che ci ha fatto imparare. Siamo sempre stati appassionati e questa cosa ci ha spinto a a poi trovare una linea nostra. Anzi, credo che la cosa che abbia funzionato sia proprio la nostra origine, come come ci siamo mossi da sempre. Ci piace mantenere sempre quell’anima street da cui siamo partiti. Per questo più che un collettivo siamo una crew 2.0, che dà proprio l’idea del nostro background che è, appunto, prettamente rap.
Che poi in Toscana non c’è una scena rap consolidata…
Esatto, non esiste, assolutamente! Ma secondo me perché la Toscana è un contesto completamente diverso. Il rap è una cosa che affonda veramente le radici nella città, è un genere metropolitano. La Toscana non ha metropoli e per questo la narrativa è diversa, che rimane comunque urbana per le influenze che ha, ossia tanto rap americano. Diciamo che la cosa figa è che su di noi questa cosa fa un effetto totalmente opposto rispetto a chi vive nelle grandi città. Nella provincia qui non hai niente, non hai movimenti urbani che ti possono ispirare, puoi avere solo delle influenze mediatiche come internet e la televisione. Per non parlare poi del tipo di vita che fai che è completamente diverso da quello che faresti a Milano o Roma.
Infatti un sacco di rapper vengono fuori dalla provincia.
Certo, e infatti un sacco di persone si ritrovano in quelle narrazioni, noi in primis perché siamo stati plasmati da questa cosa.
Qual è secondo te il tratto distintivo di Covo?
Credo proprio questa narrativa molto umana, per questo lavoriamo così bene tra di noi. Siamo cresciuti insieme, abbiamo vissuto quelle esperienze insieme, quei crash formativi di quando scopri una determinata cosa, artista, un genere, una corrente.Tutte quelle cose le abbiamo praticamente vissute insieme. C’è sempre stato un dialogo costante da quando avevamo veramente pochi anni, ci siamo influenzati a vicenda.
Mi racconti un progetto in particolare che avete sviluppato?
Noi con Covo abbiamo creato la prima piattaforma in Italia di concerti virtuali. Il concerto è ambientato su una stazione spaziale abbandonata e la piattaforma si chiama Theatre Cove Hotel Theater. Tu hai il tuo personaggio come se fossi in un videogame e le altre persone sono connesse. Quindi le vedi allo stage con te. Poi noi volevamo ricreare totalmente l’esperienza del del del concerto, quindi abbiamo fatto lo stand merchandise dove potevi comprare una felpa fatta per il concerto. C’era il bar, dove se ti sbronzavi iniziavi a vedere tutto sfocato. C’era la groupie, il bodyguard, persino uno spacciatore. E se mettevi gli occhialini vedevi tutto in 3D.
Ma come vi è venuta l’idea?
Io avevo quest’idea di fare i concerti virtuali tantissimo, e poi volevamo creare le nostre piattaforme, sviluppare delle esperienze che rompessero un po’ il il normale. Tanto ormai le persone hanno delle conoscenze intrinseche di come funziona un videogame, quindi ci siamo detti perché non non raccontare anche queste cose? I giovani alla fine utilizzano un sacco questi mezzi anche per sfogarsi. Se un tempo c’erano i graffiti oggi si rifugiano in queste dimensioni virtuali.
E quanto è stato faticoso realizzarla?
Ci siamo sbattuti tantissimo. Questa roba è la nostra vita. Se non esistessero i soldi a me non cambierebbe niente perché la farei comunque. Noi ci svegliamo e andiamo in studio a creare. Pranziamo in studio, ceniamo in studio, passiamo lì tutto il nostro tempo. Dedichiamo una mole di lavoro assurda a questa cosa perché abbiamo genuinamente voglia di fare qualcosa di figo. Non lo facciamo né per i soldi né per la fama. Lo facciamo perché ci piace veramente.
E avete la fortuna di farlo in un’era iper digitalizzata che è molto più “democratica” perché tutti possono esprimere la proprio visione artistica.
Assolutamente. Oggi i mezzi di produzione – specie quelli creativi – sono davvero alla portata di tutti. Oggi per fare musica non devi necessariamente aver fatto il conservatorio o un’accademia. Devi ascoltarti un sacco di musica, farti un gusto personale e poi puoi imparare attraverso internet. La discriminante è ovviamente l’originalità. L’originalità è la figlia dello stile, è quello che la detta.
Tra l’altro voi siete arrivati anche al Coachella. Mi racconti di quella esperienza?
Questa è una cosa di cui si è occupato il dipartimento visual di Covo. Abbiamo fatto degli stage visual per questo collettivo hip hop che si chiama Paris Texas ed è stata un’esperienza veramente fighissima. Loro hanno questa estetica molto biker, quindi Niccolò e Giulio si sono occupati della modellazione e dell’animazione dello stage seguendo questa linea. L’idea era ricreare questo park da motocross con anelli della morte, salti su Marte e così via.
E come ci siete arrivati?
Ci abbiamo lavorato perché il direttore artistico dei Paris Texas è passato da uno studio di Milano e lo studio di Milano ha cercato appositamente noi per farlo. Questa è un’altra cosa che ci dà molta soddisfazione, il fatto che alla fine se lavori bene e ti crei un’estetica tua spuntano sempre dei progetti fighi. A noi piace proprio mettere sempre la nostra visione, e questo ci porta ad entrare in tanti progetti che ci piacciono.
Cos’è per voi l’arte?
Per noi l’arte è una una forma di libertà, è bella perché dietro l’urgenza di dire qualcosa, e se quell’urgenza non c’è allora vien e male. Noi questa cosa l’abbiamo trovata nella tecnologia, che è letteralmente uno dei mezzi che ha reso l’uomo libero. La tecnologia ci ha reso liberi di fare tantissime cose, di trovare i nostri mezzi e utilizzarli per veicolare dei messaggi e delle esperienze. Cove Hotel, la nostra piattaforma, ne è un esempio.
E la cosa fatta fino ad ora con Covo di cui siete giù orgogliosi?
Sicuramente Parigi. Siamo stati selezionati per fare un’esibizione a IRCAM, che è l’ala di Centre Pompidou dedicata alla ricerca legata alla produzione musicale con mezzi informatici ed elettronici. La maggior parte della gente che c’era era proprio gente del settore scientifico, studiosi del suono. Una figata. Ogni anno aprono dei bandi mondiali e noi abbiamo proposto questa cosa molto particolare che era un dj set spaziale in cui in loco c’erano i francesi, e al posto degli stage visual normali avevamo un club virtuale dove si connettevano gli italiani e avevano il live in diretta streaming. La gente che era lì a vedersi il set dal vivo vedeva quindi dietro di noi questo club e gli italiani che ci giravano dentro.
Poi lì abbiamo dimostrato un’altra nostra tecnologia, ossia un’applicazione quadridimensionale della musica. Solitamente viene percepita su due dimensioni, massimo su tre, noi abbiamo voluto pensarla su quattro come se ci si muovesse nel tempo e in determinati punti ci fosse o meno un suono. La cosa di cui sono più contento di questa esperienza è che la direttrice di IRCAM è venuta a farci i complimenti perché quello era stato il primo evento club based in assoluto fatto lì dentro. Era l’unico progetto italiano e la prima bandierina internazionale piazzata da Covo, e il fatto di aver costruito questo ponte totalmente da indipendenti è stata una grande soddisfazione.
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