Gabriele Ciampi presenta “Hybrid”: «Il mio esperimento, una provocazione»
Ha incontrato il Papa e si è esibito alla Casa Bianca su invito di Michelle Obama: intervista a un’eccellenza della musica made in Italy, Gabriele Ciampi, da poco uscito con il nuovo album “Hybrid”
A fine ottobre è uscito Hybrid, il terzo album del compositore Gabriele Ciampi, per Universal Music: un lavoro che, come il titolo annuncia programmaticamente, intende abbattere quelle barriere che spesso vengono erette fra musica “colta” e “pop music”. Dopo The Minimalist Evolution (2014) e In Dreams Awake (2016), su Hybrid (peraltro masterizzato agli Abbey Road Studios di Londra) Ciampi esordisce come produttore.
“Con il primo brano dell’album (la title track Hybrid) ho voluto sperimentare il ritorno alle sonorità e a un beat hip hop tipici degli anni ’90 – spiega Ciampi – un beat con elementi classici che genera uno stile molto particolare che può essere definito ‘hip hop sinfonico’”.
Gabriele Ciampi ha un curriculum internazionale di tutto rispetto: è stato l’unico italiano in giuria ai Grammy Awards 2018 di New York; si è esibito alla Casa Bianca su invito personale di Michelle Obama; ha incontrato Papa Francesco (per il quale ha composto un brano, Preludio per due violoncelli). Inoltre ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui la medaglia Eccellenza Italiana conferitagli dal Senato e la green card per Extraordinary Ability rilasciata dal governo americano.
Per Hybrid hai voluto lavorare con un team sia musicale che “tecnico” (grafica, foto, video) dalla forte presenza femminile per valorizzare il lavoro delle donne nel mondo della musica. Quello della gender equality in musica è un dibattito relativamente recente: per te quali sono gli ostacoli culturali ancora da superare in tal senso?
Intanto diciamo che vivere a Los Angeles ha contribuito ad arricchirmi da un punto di vista sociale. Nel senso che essendo una metropoli composta da 20 milioni di persone provenienti da tutte le parti del mondo capita molto spesso di cenare con 5-6 amici ed avere a tavola ben cinque paesi diversi. Questa caratteristica della città è stata ed è per me una grande occasione per confrontarmi con culture diverse. Dal confronto (a volte anche acceso) nascono idee importanti.
In America fortunatamente le battaglie per la parità dei diritti hanno permesso a donne talentuose di mettersi in mostra in ambito artistico. Anche il business della musica in America è legato alle donne, i CEO delle principali etichette discografiche e Publishing sono donne; ci sono tante donne direttori d’orchestra stabili in teatri prestigiosi e molte altre nell’ambito cinematografico che lavorano come music supervisor.
Ancora non sono tantissime le donne compositrici, questo perché la composizione è sempre stata una disciplina principalmente maschile: si tratta di un problema culturale ma per fortuna l’America ha dato (e sta dando) una bella scossa al sistema, ancora troppo “maschilista” in alcuni paesi europei.
L’ostacolo principale che vedo in questa fase di evoluzione è proprio questo riconoscimento del merito in ambito musicale che, specialmente in Europa, non è ancora un principio totalmente affermato. Fortunatamente in Italia ci sono dei segnali di apertura. Prestigiose istituzioni classiche si sono aperte a nuovi progetti artisticamente al femminile e nel mio piccolo con la presentazione di Hybrid dal vivo il 4 dicembre al Teatro Dal Verme di Milano e a Roma per Capodanno il 1° gennaio 2019 all’Auditorium Parco della Musica, ho voluto rendere omaggio alla creatività femminile (che considero unica ed eccezionale) invitando per questa occasione musiciste talentuose da varie parti del mondo, come la pianista russa Elena Nefedova e il soprano solista della China National Opera Jiujie Jin.
Una novità che mia piacerebbe vedere in ambito classico riguarda proprio il prestigioso concerto di capodanno a Vienna. Sarebbe bello vedere una donna sul podio insieme ai Wiener Philarmoniker…sarebbe proprio un gran bel segnale!
Il titolo Hybrid riassume bene l’approccio “crossover” delle sonorità dell’album: strumenti classici ed elettrici, arrangiamenti orchestrali e suggestioni dalla pop music si mescolano insieme. Il futuro della musica è nelle contaminazioni?
Non c’è più niente di nuovo inventare: si può provare a creare qualcosa di interessante. La ricerca e lo studio diventano quindi fondamentali per creare qualcosa. Dalla ricerca si prende lo spunto che porta alla creazione dell’opera.
Purtroppo quello che ci sembra “nuovo” appartiene al passato: non si stampano quasi più CD ma sul mercato c’è il ritorno del vinile; nei concerti classici si eseguono sempre di più compositori del ‘900, in particolare Stravinsky (considerato un “contemporaneo” ma la sua musica è stata scritta 100 anni fa!); nel pop e nell’hip hop siamo molto influenzati dalle tendenze musicali d’oltreoceano però se entriamo nel tecnico e analizziamo meglio alcuni brani troviamo delle analogie armoniche/melodiche con alcuni grandi successi dei Beatles o di Lucio Battisti o dell’hip hop tipico degli anni ’90… Quindi c’è questo ritorno al passato che secondo me è necessario per creare un futuro artisticamente interessante.
La contaminazione la reputo essenziale anche nella composizione. C’è contaminazione nello sport, nella cucina, nella pittura e credo sia necessaria anche nella musica. La contaminazione però è direttamente proporzionale alla conoscenza, nel senso che senza uno studio approfondito di quello che si va a scrivere la fusione tra i vari generi è impossibile. Dobbiamo tutti studiare di più e continuare a ricercare.
Hybrid è un esperimento, una provocazione. “L’hip hop sinfonico”, come mi piace chiamarlo, non è altro che la fusione tra questi due generi opposti: con questo brano ho provato a ricreare un sound anni ’90 con una scrittura polifonica a più voci. Mi piacerebbe che questo esperimento continuasse con collaborazioni con esponenti di rilievo della cultura hip hop americana.
È anche un tipo di musica molto cinematico. Quali sono per te i capolavori senza tempo della film music?
Il cinema è la mia passione. La musica evoca immagini e la cosa migliore è raccontare un sogno, un sentimento, uno stato d’animo. Per me la musica è un linguaggio, il mezzo attraverso il quale mi esprimo. Parlando di compositori ammiro molto Philip Glass. Le sue orchestrazioni sono molto moderne e si adattano bene al cinema (anche quelle scritte nel periodo minimalista di inizio anni ’70). Non è soltanto un compositore per il cinema ma ha scritto tante sinfonie importanti e la sua musica è armonicamente interessante e sempre attuale: un compositore a 360 gradi.
Parlando di capolavori senza tempo mi piace ricordare un prodotto tutto made in Italy: il western italiano (non “all’italiana”, come erroneamente si dice, perché si tratta di un vero e proprio stile). È stato il più grande capolavoro cinematografico a livello mondiale: abbiamo insegnato noi una tecnica agli americani sia dal punto di vista della regia (le inquadrature in primo piano sperimentate da Sergio Leone in C’era un volta il West sono ancora molto usate a Hollywood) sia dal punto di vista musicale: Ennio Moricone in quegli anni per la prima volta ha unito insieme effetti (anche rumori) e musica. Oggi ci stupiamo di fronte alle sonorità di Hans Zimmer ma ci dimentichiamo che noi lo facevamo negli anni ’70! L’unione di effetti e musica è tutto made in Italy. Ad oggi con la tecnologia si utilizzano i suoni elettronici al posto dei rumori ma il risultato non cambia.
Hybrid è il primo album di cui sei anche produttore, un ruolo che in genere è affidato a collaboratori esterni. In che modo riesci a scindere l’orecchio “emotivo” del musicista/compositore da quello “analitico” del producer?
La chiave giusta per approcciare la produzione è non essere protagonista durante la registrazione. Sembra impossibile ma si può fare. Per Hybrid ho ceduto la bacchetta alla mia collaboratrice Carolina Leon Paez, una violista di grande talento e direttore d’orchestra che ha diretto alcuni brani. In quel momento mi serviva un altro tipo di orecchio e se sei sul podio non puoi essere fisicamente in regia ad ascoltare la qualità registrazioni e non la qualità delle composizioni! Un brano scritto bene ma registrato male perde il 50% del suo valore in un momento in cui il mercato chiede produzioni di grande qualità.
È chiaro, la critica è alla base della produzione, il confronto con chi non la pensa come te è necessario e da questo confronto nasce l’idea giusta. Ad esempio anche con Carolina ho avuto dei confronti artistici sull’interpretazione dell’Adagio per archi: alla fine l’apertura verso la sperimentazione è risultata vincente. L’errore comune (spesso nella musica pop) è autoprodursi senza avere una sorta di “specchio” accanto, una voce che ti faccia notare gli errori che stai facendo: l’orecchio emotivo in studio non esiste, ecco perché considero il concerto il vero banco di prova, il momento in cui un artista veramente si esprime e, se c’è qualità, viene fuori.
Per la produzione di Hybrid siamo riusciti a lavorare velocemente considerando soltanto tre giorni in studio. Devo dire che senza la preparazione classica da una parte e l’esperienza americana fatta alla UCLA (che mi ha formato dal punto di vista della produzione in studio di registrazione) questo risultato non sarebbe stato possibile. Amo lavorare con l’orchestra dal vivo, senza click e con un massimo di tre take per brano: questo per lasciare la naturalezza, l’aspetto umano che ogni brano deve avere anche con qualche imperfezione e qualche rumore che però fanno parte del brano stesso. Quando ascolto la musica diffido sempre di registrazioni perfette, “belle senz’anima”.
Ci racconti cos’è la CentOrchestra, da te fondata e diretta?
Un progetto legato ai giovani musicisti, una voglia di lavorare con musicisti italiani ma allo stesso tempo un gruppo aperto verso i talenti provenienti da altri paesi. Ci sono tanti bravi musicisti in America e amici e colleghi mi chiedono spesso perché io abbia deciso di produrre in Italia. La risposta è semplice: siamo noi l’esempio, non il contrario! Pensando alla musica classica, la scuola europea è la migliore al mondo e non abbiamo nulla da invidiare agli americani. Per questo sono felicissimo di lavorare con questo gruppi di quaranta validi musicisti con cui condivido concerti e produzioni in studio.
Oltre a questo c’è anche un discorso di qualità dell’esecuzione che va oltre la tecnica: conoscere bene la persona che sta dietro allo strumento mi permette di tirar fuori il meglio dalle sue qualità. Purtroppo a causa dei budget ridotti quando lavoriamo con orchestre formate sia in Italia che in America in tre ore bisogna preparare un concerto…
Hai un pedigree internazionale molto marcato. Da quel punto di vista, quali sono secondo te pregi e difetti del fare musica in Italia? Pensi che quella del musicista sia una professione sufficientemente valorizzata a livello sociale e culturale?
Più vivo in America più mi rendo conto della forza di noi italiani nelle arti, nello sport, nella cucina. Mi considero un “cervello in prestito” perché mi piacerebbe tornare un domani per contribuire nel mio piccolo alla crescita e allo sviluppo della musica italiana che io considero un patrimonio che deve essere preservato.
Parlando da un punto di vista esclusivamente artistico (metto da parte l’aspetto commerciale/economico) non è vero che in Italia sia più difficile. La cultura musicale è ben radicata da noi e se un brano o una canzone sono validi vengono capiti dal pubblico che ascolta. Abbiamo una grandissima tradizione musicale e questo è un grande pregio: di contro però se l’artista vale poco musicalmente, nel senso che stiamo parlando di un personaggio improvvisato musicista che non ha nessuna base di studio alle spalle, ovviamente sarà molto difficile o impossibile lasciare un segno o avere successo in Italia.
Facciamo l’esempio del cibo: se uno chef, anche stellato, cucina un piatto che non è buono non è un problema di chi lo assaggia ma è lo chef che deve mettersi in discussione. Allo stesso modo se un brano non ha successo, il compositore/autore/interprete deve mettersi in discussione perché il pubblico italiano è ben preparato e se un brano vale lo ascolta.
A volte sento con stupore e leggo critiche al Festival di Sanremo (che considero patrimonio nazionale) per la scelta degli interpreti in gara: secondo alcuni, sempre gli stessi ormai al tramonto… Per fortuna ci sono loro, mi verrebbe da dire, perché i giovani emergenti invece di studiare e provare a creare qualcosa di interessante attraverso la contaminazione culturale “scopiazzano” l’hip hop d’oltreoceano: quello sì che è vera cultura.
Ti sei esibito alla Casa Bianca (non so quanti altri italiani l’abbiano mai fatto) su invito di Michelle Obama. Ci racconti questa importante esperienza?
Anche se sono passati tre anni mi vengono ancora i brividi. Pensate anche voi alla situazione, davanti a un computer e poi improvvisamente ricevere una mail dalla First Lady… Avevo inviato a Michelle Obama il mio album live The Minimalist Evolution e dopo sei mesi ho avuto risposta. Proprio lei mi ha invitato ad esibirmi alla Casa Bianca, proprio lei ha voluto un compositore italiano per il tradizionale White House for Holiday. Non era mai accaduto prima.
Oltre alla forte emozione, anche la responsabilità di non deludere le aspettative e la consapevolezza della nostra forza: la musica italiana scelta per una festa tradizionale così importante, un evento che deve farci riflettere e farci capire che siamo noi l’esempio da seguire. Per questo, da appassionato di musica leggera, mi dispiace vedere perdersi la grande tradizione della musica italiana in favore di uno stile rap/hip hop “imitato”, non originale che non ci appartiene e che non ci apparterrà mai.