Home Is Where, gli 11 settembre quotidiani e la rinascita dell’emo: «Non definiteci folk punk»
Reduce dalla pubblicazione dell’acclamato album “the whaler”, la band è ormai un simbolo della nuova ondata statunitense del genere. Con Brandon MacDonald, cantante del gruppo, abbiamo parlato di futuro, tragedie, identità di genere e ovviamente Bob Dylan
Per riassumere l’essenza degli Home Is Where basta iniziare da History Lesson Part 2 dei Minutemen: in quell’incipit c’è tutto, dalla componente folk dell’EP i became birds (2021), quella hardcore dell’ultimo stupendo the whaler e persino Bob Dylan. Our band could be your life si trasforma in Our band could be your neighborhood, il motto del gruppo composto da Brandon MacDonald, Tilley Komorny, Josiah Gardella e Connor O’Brien. Nati nel 2017 a Palm Springs gli Home Is Where sono una delle band emergenti più importanti del panorama emo statunitense. Il loro sound unisce una scrittura metaforica densa di immagini allo screamo hardcore e al suono acustico della chitarra e dell’armonica.
Il 2023 e l’ondata emo statunitense
Il 2023 è stato un anno importante per il genere, non solo grazie alla band di Brandon, alle reunion di band mainstream come My Chemical Romance e Paramore, ma anche all’exploit di gruppi come Militarie Gun – protagonisti al prossimo Primavera insieme agli storici American Football – e awakebutstillinbed. Molti amano definirla la 5th wave emo, anche se non si può parlare di scena o movimento. «Si tratta solo di un indicatore temporale. Non è un genere. Non è neppure necessariamente un suono» spiega MacDonald nel corso dell’intervista su Zoom.
Brandon è collegato dagli Stati Uniti, non dalla natale Palm Springs in Florida, ma da un somewhere else che racconta molto più del un nome di una qualsiasi cittadina statunitense. «Posso solo dirti che ci sono un sacco di spiccioli per terra e molti posti dove comprare donuts. America». Da quando in Florida, a causa delle leggi anti-trans, la vita delle persone transgender è diventata difficile, oltre che pericolosa, Brandon ha scelto di abbandonare la sua città.
Una fase complicata della sua vita che è emersa in tutta la propria oscurità nell’ultimo album the whaler, descritto dalla band con una frase emblematica. A concept record about getting used to things getting worse: abituarsi al fatto che le cose andranno sempre peggio. Ogni giorno è come l’11 settembre, urla nella traccia centrale del disco. Eppure, la leader della band è solare ed esuberante, soprattutto quando ha l’occasione di parlare della musica che ama e che ha ispirato la band. Cap’n Jazz, Joan of Arc e Bob Dylan su tutti, molto meno i Neutral Milk Hotel al quale la critica spesso li associa.
L’intervista a Brandon MacDonald degli Home Is Where
Dopo il successo di the whaler, oramai siete considerati tra gli ambasciatori della nuova wave emo, condividi quest’etichetta?
Oh, questa cosa è iniziata addirittura dopo il secondo EP, quando ho fatto un elenco di nuove band emergenti usando il termine 5th wave emo per descriverle. Da quel momento questa cosa si è legata a noi e credo che se anche pubblicassimo un disco ambient ci continuerebbero a considerare in questa nuova ondata. Che poi direi che la quinta ondata non è più così nuova, è in circolazione da un po’ di tempo, dal 2017 o 2018. Oramai ha delle gambe solide. Comunque indico sempre il primo disco degli awakebutstillinbed come il primo album della 5th wave.
Che poi è solo un indicatore temporale. Non è un genere. Non è neppure necessariamente un suono, anche se alcune persone lo trattano così. Naturalmente sono contento che gli Home Is Where vengano apprezzati ed è molto meglio che ci definiscano una band pop punk, piuttosto che una band folk punk. È qualcosa che mi fa uscire pazzo perché non ascolto quel genere e non mi ispiro a esso in alcun modo. Onestamente non ci penso neppure molto al genere, non parto con l’idea di scrivere un disco emo, mi piace caderci dentro. Lo capisco solo quando lo ascolto, non c’è una ricetta. Amo molto la musica emo e ne sono ispirato, ma mi piacciono anche altre cose.
La storia degli Home Is Where è iniziata nel pieno di quella quinta ondata.
Sì, la band è nata nel 2017 come una cosa tra amici delle scuole superiori. Ci eravamo quasi diplomati, eravamo in fissa col punk rock e cose simili. Il nome deriva da una poesia che ho scritto in quel periodo. Eravamo la classica garage band della tua città che scrive canzoni per gli amici e sugli amici per ballare e cantare insieme. Tutte le canzoni, almeno nel primissimo EP Our Mouth to Smile (2019), parlavano di Palm Coast e della Florida e di come l’ambiente circostante incidesse nelle nostre vite.
Proprio nel vostro primo EP c’è una canzone intitolata Dob Bylan. Un brano politico che è però anche un omaggio a Bob Dylan. La sua musica influenza il tuo modo di scrivere e credo abbia donato un’anima folk alla band.
Mi sono appassionato a Bob Dylan quando avevo 13 anni. Non mi ricordo di preciso come, forse leggendo Watchmen. Nella graphic novel di Moore ci sono un paio di citazioni di Dylan che mi colpirono. Sono sempre stato interessato alla scrittura e cose del genere fin dalla tenera età, ma sai, credo che quello di Dylan sia stato il primo con cui ho davvero fatto click. Da lì ho cominciato ad ascoltare la sua musica, ma non è stato facile. Non avevo nessuno in famiglia che fosse interessato. Sono un po’ ossessionato da lui da 15 anni ormai (ride n.d.r.).
In realtà sono legato a Dylan non solo per la sua musica, ma anche per quella che mi ha fatto scoprire: folk tradizionale, blues, rock ‘n’ roll, roba come Buddy Holly, Bunker Hill e Bo Diddley. Ripensandoci, posso dire che tutto è stato grazie a quel fumetto che ho letto da piccolo.
Il vostro secondo EP i became birds (2021), con cui avete attirato le attenzioni anche di Pitchfork, è, in parte, ispirato dai problemi legati alla tua identità di genere. Cosa ricordi di quel processo creativo?
Ho iniziato a scrivere quello che sarebbe poi diventato i became birds quando avevo 16 anni. Ho lavorato su quel disco per circa otto anni, nove anni a intermittenza. Un sacco di tempo durante il quale stavo attraversando una fase complicata, tutto concentrato in meno di venti minuti. Dopo il primo EP volevo concludere quel progetto iniziato quando ero adolescente, ma tra i 22 e i 23 anni vivevo davvero come un fannullone. Lavorando il meno possibile in modo da poter fare cose vietate e uscire con gli amici e roba del genere.
Allo stesso tempo però mi sono concentrato molto sull’arte, sull’emo e la musica in generale, più di quanto non avessi mai fatto prima di allora. Ho scoperto One Foot in the Grave (1994) di Beck che è stata una grandissima ispirazione. Ho sentito che era importante leggere e sperimentare se volevo fare qualcosa di altrettanto significativo con la band, qualcosa che uscisse per la prima volta dallo schema della canzone scritta solo per gli amici.
Come vivi il fatto che lo stato dove sei nata approvi leggi anti-trans e tenda a discriminare la comunità LGBTQA+?
È strano perché culturalmente amo l’America. Abbiamo inventato il rock and roll, il blues e la musica country, lo stile e la cultura americane in generale mi ispirano. Politicamente però siamo messi male, ma è casa, non saprei dove andare. Poi c’è da dire che nel resto del mondo la situazione non è molto diversa, pochi giorni fa si è conclusa la vicenda giudiziaria di Brianna (la ragazza transgender di 16 anni uccisa lo scorso febbraio). Penso che ciò dimostri che non importa dove vai, sai che si è più sicuri dove ci si fa più soli. Per questo preferisco vivere in solitudine e ho abbandonato la Florida, nonostante la ami ancora perché ci ho vissuto per 26 anni. La chiamerò sempre casa, ma al momento non posso tornarci. Non è un’opzione se voglio sopravvivere vivendo la vita che desidero vivere.
assisted harakiri e long distance conjoined twins sono le due canzoni manifesto di i became birds. Soprattutto la seconda per la metafora con cui descrive come ci si sente a scoprire la propria identità, dicendo addio contemporaneamente al sé del passato.
Twins paradossalmente è stata la prima canzone che ho scritto con la chitarra, utilizzando due accordi, una delle più semplici. Ricordo di averla scritta d’istinto, molto rapidamente. Stavo metabolizzando il mio essere transgender, forse per questo motivo è stato veloce il processo di scrittura. C’era qualcosa che stava succedendo dentro di me e che dovevo comprendere come affrontare.
Quindi scrivere quell’EP è stato un modo per liberarsi, una sorta di autoanalisi.
Un sacco di gente usa l’aggettivo “catartica” per descrivere la nostra musica. Sono ovviamente contento di questa cosa, anche se io dopo aver scritto una canzone, o mentre la canto, non percepisco questa cosa. Sì, mi sento bene, ma perché mi rendo conto di aver creato qualcosa. Purtroppo, non basta scrivere una canzone per affrontare o trovare un senso a certe cose con cui inevitabilmente dovrai confrontarti per tutta la vita.
La genesi di the whaler
Il vostro ultimo album the whaler riflette il momento buio che hai attraversato ed è un disco molto più scuro del precedente.
Sì, è un disco molto oscuro e ho un rapporto piuttosto strano con esso. Da un lato penso che sia un buon album, ma quando ci penso mi tornano in mente tutti i momenti complicati che ho passato scrivendolo. Per fortuna poi l’ho registrato in tour insieme al resto della band e quelli sono ricordi molto divertenti e felici. Soprattutto per il lavoro con Jack Shirley, il mio produtore preferito. È stata la prima volta che abbiamo lavorato in modo professionale in uno studio, utilizzandolo come un vero e proprio strumento. Vivere quella fantasia che avevo da adolescente di essere in studio e fare cose folli con strumenti di tutti i tipi è stato fantastico. Tuttavia, non vorrei rivivere quello che ho passato per scrivere the whaler. Il disco che stiamo scrivendo ora sta nascendo da un luogo fisico e mentale migliore.
skin meadow è la traccia d’apertura e la prima che avete scritto per the whaler. Credo che rispecchi una delle caratteristiche più riconoscibili del tuo modo di scrivere: ci sono sempre metafore corporee.
Io inizio sempre a scrivere le canzoni dalle parole, per poi lavorare all’arrangiamento con Tilly e il resto della band. Credo che gli organi del corpo umano siano affascinanti a modo loro e che contengano significati e simboli diversi che cambiano col tempo. Basta pensare allo stomaco. Poi amo il suono di quelle parole, come skin e lungs. Sono belle da sentire ed esprimono qualcosa. Non è casuale e non è nemmeno un flusso di coscienza. È tutto molto matematico, collegato ed è stato pensato. Ci sono molti easter eggs nei testi dell’ultimo disco che in molti non hanno ancora colto.
Il centro di the whaler è il brano everyday feels like 9/11, Cosa ricordi di quel giorno?
Non ricordo molto della mia infanzia, ma ho dei flash nitidi della mattina dell’11 settembre. Avevo sei anni e stavo facendo colazione quando il primo aereo si è schiantato. Mia madre era distrutta, tutta la mia famiglia è originaria di New York. E poi sulla strada per la scuola il secondo aereo…è stato strano. Soprattutto sentire le canzoni alla radio interrompersi per le news. Quando le vivi da bambino certe cose ti rimangono impresse.
Per questo quindi quella data è diventata il fulcro di the whaler e una metafora per le tragedie quotidiane.
Nei primi giorni si parlava di unità e fratellanza, ma subito dopo siamo entrati in guerra e la gente ha iniziato a puntare il dito contro i musulmani e l’Iraq. E ha fatto più male di qualsiasi altra cosa agli Stati Uniti. La gente parla di come Donald Trump abbia davvero diviso il Paese, ma io mi sento come se l’abbiano fatto l’11 settembre e le guerre successive. È l’unica e l’ultima tragedia che ha significato davvero qualcosa per noi americani. Forse perché per la prima volta gli USA hanno provato sulla loro pelle cosa avevano fatto da sempre nei confronti degli altri paesi.
Abbiamo vissuto il Covid, per i civili in Palestina, da settant’anni, ogni giorno è come l’11 settembre. Qui in America abbiamo a che fare non solo con i crimini contro le persone LGBTQA+ e la brutalità della polizia, ma anche con le sparatorie di massa. Siamo talmente abituati alle tragedie che ormai siamo come diventati insensibili.
Home Is Where: our band could be your neighborhood
Con il riscontro ottenuto dai vostri dischi si è creata una comunità folta, un po’ come suggerisce il vostro motto: “our band could be your neighborhood”. Come mai proprio i Minutemen?
(Brandon recita a memoria la terza strofa di History Lesson Part. 2 n.d.r.). Gli Home Is Where non esisterebbero senza i Minutemen e il loro modo spontaneo e privo di regole di fare musica. In un senso molto letterale, la nostra band era il quartiere. Sai, eravamo sparsi per la città, ma non dovevamo andare molto lontano per vederci. Palm Coast ora è più grande, ma quando eravamo adolescenti era una via di mezzo tra la periferia e una città rurale. La campagna, i binari del treno e poi dall’altra parte dei binari il centro, la piazza e il resto.
Mr. Narrator
This is Bob Dylan to me
My story could be his songs
I’m his soldier child
Quale è il tuo desiderio per il 2024?
Spero solo che tutta la musica che mi piace e tutti i miei amici riescano a guadagnare un sacco di soldi con l’arte che fanno. Lo stesso vale per noi come home is where, così da riuscire magari a rientrare nelle spese per un tour europeo in Italia, Inghilterra, Irlanda…sarebbe bellissimo.