“Turbulence”, il pop secondo Giungla: «Che sia variegato e riconoscibile»
Dal 25 giugno è disponibile in streaming il nuovo EP della cantautrice, con un sound che oscilla fra l’alternative rock e l’electropop. L’abbiamo intervistata
Palchi condivisi con artisti come The xx, Foals e Grimes. Esibizioni al South by Southwest, al Sziget e a The Great Escape. Non c’è dubbio che, fra gli artisti indipendenti nostrani, Giungla sia fra quelli con il più spiccato “pedigree” internazionale. Un percorso certamente non semplice ma capace di regalare soddisfazioni speciali, che passa attraverso l’uso dell’inglese, i featuring internazionali e un ventaglio sonoro di stampo decisamente “europeo” che oscilla fra l’alternative rock e l’electropop. Tutte caratteristiche che ritroviamo nel suo nuovo progetto discografico, l’EP di cinque brani Turbulence (Factory Flaws / Peermusic Italy). L’abbiamo raggiunta telefonicamente per approfondire un lavoro che ha pochi simili nel panorama italiano.
Il titolo e il testo di Turbulence, benché raccontino emozioni personali, risuonano bene con il periodo che stiamo attraversando. È un’ambiguità voluta?
In realtà ho iniziato a scrivere il pezzo prima di questo periodo, avevo in mente anche il titolo. Come tante cose nella musica di questi tempi, poi ha acquistato anche un nuovo significato. Per cui mi è sembrata ancora più giusta. Si rifà all’idea che in un percorso ci sia bisogno di avere cose che ti scuotono ma che tu non puoi controllare e che non dipendono da te. La riflessione si può allargare a qualsiasi cosa ma probabilmente è perfetta per questo momento.
Mi ha colpito la scelta della copertina, un ritorno a una pittura dal tratto molto marcato e materico in un periodo in cui la digital art va per la maggiore. Cosa ti ha spinto a collaborare con l’artista Sophie Westerlind?
Volevo lavorare con una pittrice. Un mio amico che fa il curatore mi ha parlato di lei e ci ha presentate. È stata subito apertissima all’idea di collaborare. Continua a dirmi che per lei quel quadro ha assunto nuovi significati. Ho fatto una visita al suo studio alla Giudecca, a Venezia, dove ha passato tutto il lockdown. Quando mi ha mostrato quel quadro intitolato Martina’s Flowers e me ne ha raccontato la storia, me ne sono subito innamorata. Mi hanno colpito questi tratti molto colorati ma anche molto feroci. Li ho sentiti affini al tipo di musica che faccio.
Che tipo di lavoro hai fatto con il produttore Andrew Savours?
L’ho conosciuto quando ho suonato tre anni fa al Great Escape di Brighton. Ha prodotto Give Up, Jump e Walk on the Ceiling. Abbiamo passato una bella settimana nel suo studio di Londra. Si è occupato dell’ultimo disco dei My Bloody Valentine (m b v, 2013, ndr), è stato studio assistant per gli Yeah Yeah Yeahs… Per i suoni, soprattutto quelli di chitarra, ero davvero con la persona giusta. È stato molto stimolante stare in studio con uno che ha lavorato con alcuni dei miei artisti preferiti di sempre.
In Little Problem c’è il featuring con la londinese Jessica Winter, un’artista davvero interessante. Com’è nata questa sinergia?
L’ho conosciuta a Londra mentre stavo registrando altre cose. I nostri due manager hanno pensato di farci fare qualcosa insieme. Lei è un vulcano: scrive e produce con un sacco di persone. È fra le mie nuove scoperte preferite ed è come dovrebbe essere il pop, secondo me. Il pezzo è il risultato di una giornata assieme in studio, poi l’abbiamo finito da remoto. Comunque è scritto 50 e 50 da tutte e due.
Nei tuoi brani, i testi e le musiche sono sempre molto legati: come scrivi solitamente? Da cosa parti?
Principalmente finora ho scritto partendo da un’idea di melodia, da una “topline”. Spesso mi viene in mente già con delle parole, anche se solo temporanee. Quando scrivo c’è sempre un nucleo dal quale poi sviluppo tutto il resto. Ultimamente ho iniziato anche a fare cose un po’ diverse dal solito: magari dieci minuti di improvvisazione totale. Mi sto legando molto di più al suono, quindi penso che le prossime cose potrebbero partire di più da quello.
È interessante la tua playlist su Spotify intitolata Breathing Too Loud: da Battisti a Empress Of, da Piero Umiliani a Kelly Lee Owens. Possiamo considerarla una sintesi delle tue influenze?
Assolutamente. Mi hai anche ricordato che devo aggiornarla! Rappresenta la mia idea di pop: che abbia dentro tante cose diverse, e chi lo fa sia unico e riconoscibile.
Sei una delle artiste indipendenti italiane con la maggiore esperienza internazionale. È più difficile costruire una carriera di questo tipo rispetto al fare un percorso esclusivamente in Italia?
Penso siano due scelte diverse. Nel mio caso, fare un pezzo con Jessica Winter, un’artista che poi metto nelle mie playlist, è una cosa che se avessi cantato in italiano non sarebbe successa. Faccio quello che mi sento. Quello che mi muove è la curiosità di fare cose con le persone che ammiro di più. Certo, ci sono tantissimi artisti italiani che mi piacciono ma sono cose diverse. Entrambe le prospettive hanno le loro difficoltà, sicuramente a livello di budget. Ci vuole anche tanta pazienza per farlo all’estero e vedere dei risultati.