Interviste

La lezione dei Metronomy: sorridere ai paradossi del nostro “Small World”

La band capitanata da Joseph Mount torna il 18 febbraio col nuovo album di inediti: un tipico disco reduce dalla pandemia, fatto senza fretta e cesellato nei particolari

Autore Piergiorgio Pardo
  • Il12 Febbraio 2022
La lezione dei Metronomy: sorridere ai paradossi del nostro “Small World”

Foto di Alex Lambert

L’aspetto forse più costante e caratterizzante nell’intera carriera dei Metronomy è la qualità del songwriting. Dai tempi di Nights Out (2008), passando per un disco come Love Letters (2014), che rimane nel cuore di molti, Joseph Mount ha davvero regalato un repertorio ricchissimo di canzoni riuscite, originali e soprattutto molto inglesi.

In questo senso, Small World può essere considerato una sorta di punto di arrivo per i Metronomy. È un album scritto benissimo, un tipico disco reduce dalla pandemia, dunque fatto senza fretta e cesellato nei particolari. Il repertorio però è pieno anche di umorismo e di uno sguardo “di taglio” alla realtà, che, ascolto dopo ascolto, rivela tutti i propri pregi.

All’improvvisa dilatazione dei tempi, ai vuoti di senso dei mesi del lockdown, Mount risponde con l’intensità incisiva di un mondo piccolo. Un mondo la cui sostanza è fatta di emozionalità e capacità di cogliere l’essenza irripetibile delle cose.

Ecco un estratto dell’intervista che trovate integralmente sul numero di febbraio di Billboard Italia.

Come sono nate, dal punto di vista compositivo, le canzoni di Small World?

Non sono mai stato uno di quelli che imbracciano una chitarra e scrivono. Parto da blocchi di musica, riff, ritmi. Su quelli invento le melodie e infine le parole. In questo nuovo lavoro ho cercato di avvicinarmi di più ad una struttura “classica” di canzone, ma alla base c’è sempre il divertimento di mettere insieme segmenti e vedere come interagiscono fra loro. C’è ancora molto del beatmaker in ciò che scrivo.

Come ha influito la pandemia sul processo creativo?

A parte l’enorme quantità di tempo a disposizione per lavorare sui pezzi, c’era anche il bisogno di esprimere dei contenuti ad un livello molto emozionale. Desideravo scegliere, andare alla costante ricerca del meglio. Volevo semplicemente riuscire a fare un bel disco.

Mi sembra che ci sia anche molto umorismo nei pezzi.

È stato inevitabile guardare all’uomo improvvisamente piegato dalla natura e quasi indifeso con un pizzico di divertimento. C’è della tragedia nella commedia della vita e viceversa.

Il primo singolo It’s Good to Be Back, anche nel divertentissimo video, cattura molto di questa combinazione di contrasti. A proposito del titolo, in che senso canti che è bello tornare?

Il primo effetto della pandemia è stato quello di farci trascorrere molto tempo in famiglia. Ed effettivamente è bello tornare a casa ma, viste le circostanze, anche in questo piacere c’era qualcosa di tragico. Meglio allora sorridere del paradosso e raccontarlo in modo ironico.

Ti senti vicino ai musicisti che oggi scrivono canzoni a partire dall’elettronica? Ti faccio esempi a caso: Bon Iver, James Blake, Frank Ocean.

La differenza più grande tra la mia generazione e la loro è che ai tempi in cui ho iniziato c’era il britpop da un lato e poi c’erano i grandi musicisti elettronici, tipo Aphex Twin o DJ Shadow. Adesso tutto invece si è mischiato. E questo è un bene. Non significa nulla essere nato maschio, bianco e con una chitarra in mano.Da qualunque luogo e attitudine tu venga, hai tutto davanti a te: dai Beatles all’hip hop.

Com’è cambiato il pubblico dei Metronomy ai concerti?

Abbiamo una fan base molto figa. Delle volte me li guardo e penso: “Ma davvero siete così tanti a voler ascoltare questa roba?”. Scherzi a parte, è una gran bella cosa. Nei paesi in cui i Metronomy sono da più tempo, il pubblico e noi siamo cresciuti insieme. In altri posti, tipo la Spagna, dove abbiamo cominciato a funzionare in tempi abbastanza recenti, ai concerti c’è gente più giovane.

Cos’hai letto e visto durante questo periodo di pandemia?

Sono un appassionato di fantascienza, quindi L’uomo nell’alto castello di Philip Dick. E poi dei libri su come si produce vino in Inghilterra, un’altra mia grande passione.

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