Mistaman: «L’hip hop di oggi vuole aumentare il disagio, dovrebbe rendere bella una cosa brutta, non il contrario»
È uscito venerdì il settimo album solista del rapper di Treviso, che stavolta – sulle basi del fidato DJ Shocca – accantona (anche se non del tutto) l’ipertecnicismo e si abbandona all’emotività portando il caos in un ordine perfetto
Chi gravita nel mondo dell’hip hop lo sa bene: Mistaman è il re dei tecnicismi lirici e retorici. Da pezzi composti interamente in allitterazione o costruiti su un’unica metafora, il rapper di Treviso si è sempre distinto per la propria cifra stilistica che negli anni lo ha portato ad una ricerca sempre più profonda e spasmodica dell’iper perfezione dei testi e delle barre. Stavolta però, Mistaman sembra voler abbandonarsi ad altro di altrettanto profondo (senza comunque mai dimenticare le proprie skills). E proprio dall’urgenza di guardarsi dentro (anche talvolta correndo il rischio di scendere in abissi un po’ troppo profondi e non così piacevoli e rassicuranti) nasce Dentro la mia mente, il suo settimo progetto solista uscito questo venerdì.
Un album che è un ritorno alle origini, che musicalmente non possono non tradursi nella collaborazione col fedelissimo DJ Shocca, che anche stavolta ha cucito addosso a Mistaman un abito sartoriale su cui solo lui poteva rappare («Shocca è un po’ come RZA quando faceva un album di Method Man e poi uno di Ghostface Killah») e – forte dell’esperienza Unlimited Struggle, la cui lezione più importante è fare hip hop allontanandosi dai cliché e sperimentando sempre di più, nella presenza di Ze in the Clouds, giovane producer e musicista jazz. Per capirne di più di questa Nuova era e di questo nuovo viaggio dentro la mente di Mistaman, ne abbiamo parlato direttamente con lui.
Quando e come hai iniziato a lavorare a questo disco?
È tutto figlio del periodo del lockdown in cui c’era questo clima di apocalisse che mi ha fatto pensare a quello che volevo fare davvero. Avevo bisogno di entrare in una comfort zone senza avere alcuna ansia da prestazione e senza dover pensare che questo disco dovesse piacere per forza. Poi l’impossibilità di vedere quello che facevano gli altri fuori mi ha fatto guardare dentro. Il titolo appunto è Dentro la mia mente perché per me era la cosa più impellente da fare. Anche la scelta di lavorare con Shocca e con Ze in the Clouds è stata dettata da questo motivo, ossia stare in una zona di comfort.
In quel momento di isolamento ho voluto ricercare le mie radici. Mi sono abbandonato meno al tecnicismo e mi sono concentrato di più su quello che volevo dire. Ho cercato poi di creare un mood coerente tra quello che dico e quello che succede musicalmente. Diciamo che in questo disco ho voluto buttarmi più su altro che sulla tecnica.
Però ci sono 128 Barre in un solo pezzo…
Lì è stato un momento di pura egomania. Per me era come dire “ricordatevi che questa roba la so fare”. Poi dopo 100 Barre e Centouno barre un sacco di gente mi ha scritto “perché non fai 102 barre?”. E invece ho voluto raddoppiare e arrivare a 128! Quella è proprio violenza lirica, ma è una sublimazione della violenza e questa cosa è importantissima. Quel pezzo è molto violento ma io non dico mai nulla che sia davvero violento. Ormai nell’hip hop sembra ci sia più la volontà di proiettare una violenza vera anziché sublimata…
Ne parlavo un bel po’ di tempo fa con Jake La Furia, che diceva che nessun vero criminale fa il rapper e nessun vero rapper fa il criminale. Quasi come se fosse obbligatorio raccontare di certe situazioni di violenza che magari nemmeno sono mai state vissute da chi ne parla.
Esatto, è come se ci fosse un bingo del rap e di certe condizioni che in realtà non sono necessarie per farlo. Insomma, già solo essere vivi ti crea un disagio, perché devi cercartene altri? L’hip hop deve farti rendere bella una cosa che è una merda, non rendere la merda ancora più brutta. Penso anche all’ostentazione del successo economico. Questa cosa è funzionale nel momento in cui non hai mai avuto un cazzo. Il problema sorge quando questa cosa viene travisata e viene proposto un modello ordinario.
Se mi dici quanto è bello fare soldi allora non c’è arte e non c’è rivalsa, ma non c’è nemmeno emancipazione, perché è quello che le persone fanno nel sistema operativo della società. Non c’è nessuna ribellione nel seguire un processo turbocapitalista. L’hip hop e le sottoculture sono come delle pietre invisibili che compongono un’architettura culturale astratta sopra cui si sale e grazie a cui ci si eleva. Se tu invece mi dici che ci sono solo i soldi e questa cosa me la fai vedere nella sua crudezza, mi togli un po’ di magia.
In Sempre in piedi dici «Ognuno si intrattiene solo fino a dove sta capendo». Il rap italiano ti intrattiene ancora?
Per me questa frase ha due chiavi di lettura. Da un lato si riferisce a me, che da tanto tempo sono appassionato di rap e ho grande comprensione del genere e quindi cerco sempre la cosa più particolare. Dall’altro lato ci sono persone che non hanno conoscenza della musica e si intrattengono più facilmente. Spesso facciamo delle riflessioni su dei livelli di comprensione diversi, adesso il rap è alla portata di tutti e quindi a volte ci spaventiamo a vedere numeri esorbitanti su cose semplici. Intanto però quella cosa sta toccando delle corde molto profonde delle persone a cui noi non facciamo neanche caso perché magari stiamo lì ad intrattenerci con l’accordo minore di settima!
Forse però è anche una questiona anagrafica, no?
Esatto, assolutamente. Io ovviamente non voglio mettermi in una condizione di musica elitaria, ma quella frase l’ho detta in un momento in cui mi sono sentito un po’ incompreso. E forse anche un po’ per assolvermi. Spesso noi artisti ci tormentiamo ma dimentichiamo che ci sono vari livelli di comprensione dell’arte.
Infatti hai detto che con questo disco non volevi arrivare solo al fissato con le rime, col flow, con la tecnica, la retorica, la metrica e chi più ne ha più ne metta, ma volevi anche che le persone si rispecchiassero nei tuoi brani. Hai ampliato il tuo bacino di pubblico?
Io me lo auguro, anche se poi andando a vedere le canzoni della mia carriera che sono rimaste di più sono quelle in cui già facevo questa roba, tipo Che farai o Se solo avessi. Quante volte magari mi sono perso a dimostrare e invece mi bastava trovare un argomento molto più semplice cercando una coerenza tra il messaggio e la musicalità della canzone… Ecco, mi sembra che nella musica degli ultimi anni ci sia un po’ di schizofrenia su quello che viene detto e la musica su cui viene fatto, che le due cose siano un po’ scollate tra loro.
Però lì magari è un lavoro anche di sinergia tra rapper e produttore, tu con Shocca sei sempre stato molto fortunato da questo punto di vista, lui è sempre molto abile a creare un suono molto personale per ciascuno.
Sì, un po’ come RZA quando faceva un album di Method Man e poi uno di Ghostface Killah. Lavorare con Shocca per me è una garanzia. Abbiamo iniziato assieme, ci conosciamo a menadito e devo dire che anche lui ha fatto dei grandi passi verso di me in questo disco. Anche inserire queste melodie un po’ jazz è un po’ un’invasione di campo per lui, mi ha seguito molto in questa ricerca musicale e non è scontato.
Una delle tue 128 Barre dice «Ordine e caos, il mio rap è questo». Potremmo assumerlo a manifesto di quello che fai?
Sì, questa idea degli opposti che convivono mi piace molto, ad esempio nel disco c’è anche un pezzo che si chiama Luce nell’ombra. Io sono una persona molto dicotomica, tendo molto a polarizzarmi e a ridurre le cose ai minimi termini. Questa cosa si ritrova molto nella mia scrittura, tipo che trovo una metafora e mi dico “ma perché non fare un pezzo tutto con questa metafora”. Ordine e caos, perché parto da una base molto ordinata, da questa tendenza a schematizzare e trovare pattern, e poi da questa parto libero per vedere cosa succede. La musica per me è un po’ questo: ordinare il caos e disordinare l’ordine.
E questo poi come si traduce nell’evoluzione della tua scrittura?
Io sono partito dal freestyle – che è la cosa più libera che esista – e poi mano a mano mi sono imbrigliato sempre di più nella ricerca di pezzi emblematici che facessero dire “questa cosa la so fare solo io, la sa fare solo Mista”, quasi come uno statement. Poi mi sono reso conto che tra un pezzo tecnico e l’altro facevo questi pezzi più emotivi che arrivavano, quindi al momento tengo la tecnica come un tool che uso per comunicare qualcosa. Ora è un mezzo per esprimere ciò che c’è Dentro la mia mente, non è più il fine.
E del periodo di Unlimited Struggle cosa ti porti dietro? A parte Shocca, ovviamente!
Diciamo che il mio approccio non è cambiato molto. Credo che la lezione più preziosa che mi ha lasciato sia che si può fare hip hop in modo alternativo ai cliché. Abbiamo fatto del rap super musicale quando nessuno lo faceva, abbiamo fatto punchline senza mai cadere nel cliché del faccio brutto. Ognuno di noi aveva il proprio stile pur mantenendo un intento comune, e secondo me questa era la cosa bella. Ora manca un po’ il bisogno di distinguersi e questo secondo me è un peccato. Io all’inizio rappavo come i Sangue Misto, poi ho capito che questa cosa era un problema, non poteva esistere che tu rappassi come un altro! Dovevi necessariamente trovare il tuo stile, e io ci ho messo cinque o sei anni per trovare il mio.
Dopo più di vent’anni che faccio musica sono costretto a guardarmi dentro e spesso questa cosa mi manda in crisi totale perché mi sono guardato dentro più di quanto avrei voluto. Nell’album infatti lo dico in Luce nell’ombra («Non tutti hanno il coraggio di un viaggio nell’abisso, l’inferno non ha pedaggio quando sei un ospite fisso»), però alla fine ti rendi conto di come questa ricerca di te stesso vada di pari passo con la musica, e questa è la cosa più importante.