Alla scoperta di Mouth Water, producer toscano con l’attitudine americana
Conosciamo meglio questo polistrumentista che produce ottime tracce per ballare e pensare e che sta per pubblicare il suo album di debutto “Technology Fueled Dream Obsolescence”
A volte si fanno scoperte sorprendenti nel nostro Paese, artisti – soprattutto nell’ambito della dance elettronica – che non sono popolari ma che hanno la stoffa per diventare dei producer rispettabilissimi. A qualcuno di loro poi è successo, a inizio carriera ricevendo i giusti feedback lontani dai confini nazionali, come ai Meduza o a Giolì & Assia. Con Mouth Water – all’anagrafe Lawrence Fancelli – toscano mezzosangue americano, scopriamo un profilo interessante che sa combinare strumenti acustici e paesaggi sonori con sintetizzatori analogici e digitali. Offrendo così un ampio spettro di ritmi per il dancefloor ma anche per momenti introspettivi.
Dopo una serie di singoli fatti uscire tra il 2019 e oggi e di remix di alto profilo di artisti come Lindstrøm e Rhye, Mouth Water sta per uscire con Il suo nuovo disco e s’intitola Technology Fueled Dream Obsolescence (Through The Void Records). Prodotto e arrangiato da Mouth Water, Mario Romano e Matteo Zarcone presso OSB Studio e masterizzato agli Abbey Road Studios, è un album promettente. Conosciamo meglio il suo autore.
L’intervista a Mouth Water
La tua storia personale, il fatto che sei polistrumentista, producer e DJ, mi ha fatto pensare ai Parisi.
Non li conosco bene, ma il Seaboard, lo strumento che loro usano e spesso endorsano, è intrigante.
Tu hai iniziato come bassista giusto?
Sì, in realtà da bambino prendevo lezioni di pianoforte, ma anche un po’ il clarinetto, ho suonato in un’orchestra. Poi ho iniziato a suonare il basso da autodidatta e da lì sono finito a fare il bassista in vari gruppi, soprattutto quando ero a New York. Ci ho vissuto tre anni, tra i 26 e i 29 anni.
Che genere suonavi?
Prevalentemente rock, ma mi era capitato di finire anche in una band hard rock! Poi sono tornato in Italia e ho finalmente deciso di creare il mio progetto Mouth Water
Scusa, ma è un nome curioso, com’è nato?
(Ride, ndr) È un gioco di parole! Con i miei amici ci divertivamo a fare sempre un giochino, tradurre in inglese certi nostri modi di dire italiani… Ecco, per esempio: “acqua in bocca”!
E hai fondato poi un tuo studio nel cuore della Toscana che si chiama Officina Sonora Bigallo.
Sì, appena tornato dagli States nel 2013. Era sempre stato un po’ Il mio sogno. È frutto anche di un corso di un anno a Londra come tecnico del suono, perché sono da sempre appassionato agli studi di registrazione. Avevo avuto la possibilità di usufruire di un bel casolare che era stato abbandonato a Bagno a Ripoli e che mio padre aveva ristrutturato. Qui ho deciso di costruirci dentro il mio sogno.
E finalmente hai cominciato a realizzare tracce di musica elettronica /dance.
Vero, dal 2016 ho ripreso in mano alcune mie composizioni e nel 2019 sono uscite le mie prime produzioni come Mouth Water, i primi feedback sono arrivati più dall’estero che qui in Italia.
Poi progressivamente dagli States e dall’America Latina che mi dà delle belle soddisfazioni.
Ho visto che quando performi, suoni spesso strumenti “atipici” nella scena dance, come un clarinetto elettrico, nomino un altro act che abbiamo intervistato, Giolì & Assia, che suonano spesso un handpan totalmente personalizzato.
Non porto mai il laptop in consolle, non mi piace, quindi utilizzo la console da DJ con attorno vari strumenti, da un campionatore al basso elettrico, fino per l’appunto un clarinetto elettrico.
Ho visto che hai suonato con Sophie and the Giants, com’è stata la tua esperienza?
Lei è molto simpatica. Io suono cose non esattamente in linea con le sue produzioni ma per fortuna il suo pubblico ha apprezzato i miei set. Una sera, in Sardegna, siamo rimasti entrambi “vittime” di un acquazzone che ha letteralmente fatto cancellare quella data, non abbiamo capito il perché non avessero previsto una copertura! La cosa bella è stata che almeno ci siamo trovati nel backstage per parlare assieme finalmente per un po’ di tempo.
Perché questa scelta di cantare in inglese?
Ho sempre fatto musica in inglese e poi anche perché sono metà americano, di madre. Tra l’altro io non sono un’amante degli italiani che cantano in inglese, perché quando lo fanno spesso hanno un accento orribile.
E veniamo al tuo nuovo lavoro che presto uscirà, ha un titolo interessante Technology Fueled Dream Obsolescence e nel primo brano dal titolo stranissimo, Grolopue, c’è il campionamento della voce questa idea di un grande scienziato, il neurologo Oliver Sacks. Come mai?
Ah, il titolo è la parola “prologue” al contrario che è il giusto termine per indicare un’introduzione. Oliver Sacks in questo campionamento parla dei sogni, che è il tema dominante del mio nuovo album che esalta i sogni che vengono – diciamo spazzati via – dalle innovazioni tecnologiche, diciamo. Questo è in effetti il tema generale dell’album, ci stava a pennello!
Ma questo tema lo avevi in mente sin dall’inizio? Una volta si parlava di concept album…
No, ma sono riflessioni che spesso sorgevano in studio con il mio producer e con il quale ho fatto la maggior parte dei brani di questo album, si chiama Mario Romano. Abbiamo pensato che fosse una buona idea, anche perché è un tema, il dominio della tecnologia, che riguarda trasversalmente tutti noi. Poi mi sono fatto anche influenzare dalla mia passione per la fantascienza per cui, per esempio, amo Black Mirror e non mi sono perso qualsiasi film di fantascienza uscito negli ultimi anni. Senza parlare della lettura di Philip K. Dick o di Isaac Asimov.
Senti, io sono rimasto sorpreso molto piacevolmente da Rise, perché è un pezzo decisamente pop solare.
Il pezzo in realtà è nato quattro anni fa, credo, avevo scritto un testo sull’amicizia, sugli amici che non vedo più con i quali vorrei continuare ad avere un rapporto solido, concreto. Musicalmente mi ero ispirato a una traccia di Calvin Harris, perché volevo fare un esercizio di stile per cercare di ottenere un sound uguale identico a quello. Poi però è rimasto nel cassetto perché assomigliava troppo a quel pezzo di Calvin Harris! (ride, ndr). L’ho poi ritirato fuori dal cassetto e rifatto e mi sono accorto che piaceva a chiunque lo proponessi. Rise è uno dei miei preferiti.
Poi dalla dance pop di Rise si passa a un brano suonato come Enoch. A me ha fatto pensare agli Art Of Noise per queste sue piccole pause sofisticate.
Enoch è un brano che è nato tutto in studio durante una jam session con il mio producer Mario Romano. Il testo è in realtà scritto per mia figlia, che era nata pochi mesi prima, l’ottobre dell’anno scorso. Hai ragione, è il pezzo forse il meno elettronico di tutto l’album, perché è tutto suonato, c’è il basso elettrico e la batteria è poi diventata acustica, completamente. L’unica cosa elettronica è la mia voce che è filtrata dal vocoder!
Million è invece con il suo ritmo leggermente breakbeat, una traccia super anni ’90.
È partita da un giro mio di pianoforte che avevo fatto sentire al producer. Sì, è un è un po’ anni novanta nelle ritmiche cha all’inizio avevo registrato con la batteria acustica, ma non mi piaceva come si mescolava con il resto dei suoni, e quindi alla fine sono tornato indietro e ho e abbiamo inserito queste batterie elettroniche un po’ stile anni ’90.
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