Rafilù: «Se non fossi nato a Caserta non avrei fatto il rapper»
Il rapper di Caserta ci ha raccontato il suo nuovo album, tra la noia a volte salvifica della provincia, le dipendenze in tutte le loro sfaccettature e la vulnerabilità che la strada non concede ma l’amore sì
Se dovessimo stilare una classifica dei temi più trattati nella storia del rap italiano, un posto del podio spetterebbe sicuramente alla noia. La noia della periferia, della provincia, di una vita in stasi, quasi come fosse sospesa nel tempo e nello spazio. Un concetto generazionale? Oppure territoriale? Forse entrambe le cose. Ciò che è certo è che ne parlava Lou X alla fine dei ‘90, Fibra nei primi 2000 (e poi nel 2022), ma anche Massimo Pericolo vent’anni dopo. Tempi diversi, zone geografiche differenti, ma tutte con un comune denominatore: la scarsità di opportunità che la metropoli, così vicina in linea d’aria eppure apparentemente così lontana, ti serve su un piatto d’argento.
E se il contesto in cui vivi poco o nulla ti offre per uscire dalla morsa del tempo che scorre lento e sempre uguale a se stesso, per trovare un senso di appartenenza in una società che sembra essersi (o forse si è davvero) dimenticata di te, una delle poche cose che ti resta è la piazza, in cui ritrovare gli altri ma forse anche un po’ se stessi. La piazza per non sentire la noia. O per sentirla comunque, ma perlomeno per tirarci fuori qualcosa di buono. Come ha fatto Rafilù (rapper casertano ai più noto forse come Barracano) in Piazza noia, il suo nuovo album uscito venerdì.
Un disco che arriva a quattro anni da Il figlio di Scar, il suo esordio nel 2019. Quando il suo nome campeggiava di fianco a quelli di Speranza e Massimo Pericolo sui cartelloni di un tour incendiario di cui lui ha pochi ricordi perché «ci siamo divertiti un po’ troppo». E dopo un periodo in cui la noia di cui sopra è stata amplificata dalla reclusione forzata, colpevole tra le altre cose di aver discretamente inferocito gli animi.
Rafilù: «Ognuno di noi ha una Piazza noia dove tornare a perdersi»
Quella stessa reclusione che forse, però, ci ha anche fatto capire che la noia – a volte – è un male necessario. Il luogo perfetto per guardarsi dentro, anche sapendo che ciò che si trova non sempre sarà piacevole. E talvolta, anche concedendosi quella vulnerabilità che difficilmente la strada – soprattutto quella di una realtà come Caserta, che Rafilù racconta con una crudezza forse difficile da digerire per certi stomaci, spiazzante proprio perché estremamente vivida e reale – permette ai suoi ragazzi di vita. E se, come dice Rafilù, «Ognuno di noi ha una Piazza noia dove tornare a perdersi», a pochi giorni dall’uscita dell’album ci siamo fatti guidare nella sua.
Sono passati quasi quattro anni dal tuo album d’esordio, Il figlio di Scar, e due dal tuo ultimo EP, Neanderthal, un tempo quasi biblico nell’industria musicale di oggi. Com’è stato per te questo periodo?
Per me è stato lunghissimo perché ha compreso tutto il periodo della pandemia. Anzi, direi che più che lungo è stato strano. Sono stato a Bologna e tutto il disco l’ho scritto lì, tranne un paio di tracce che ho scritto in studio a Caserta. Il fatto di essere stato chiuso in casa poi mi ha fatto concentrare molto di più sulla scrittura.
Il fatto di aver cambiato nome, accantonando definitivamente Barracano e mantenendo solo Rafilù, è il tuo modo di tornare alle origini?
Questa cosa l’ho fatta per due motivi, il primo dei quali stupido. A Bologna c’è una piazza che si chiama Baraccano, quindi tutti, sbagliando, mi chiamavano così e questa cosa mi dava troppo fastidio. Io non lo sapevo perché Barracano è un cognome napoletano molto comune che avevo preso da una commedia di De Filippo. Il secondo motivo è perché Rafilù è il mio nome vero. Vuol dire Raffaele in dialetto, è il nome di mio nonno e il nome con cui mi chiamano i miei genitori. Allora mi sono detto “voglio tornare a chiamarmi così”. Un po’ come Snoop Dogg quando la nonna lo chiamava Doggy.
Hai scritto di aver aspettato per tre anni l’uscita di questo disco, era da un po’ quindi che avevi nel cassetto questi brani o ti riferivi alla voglia di tornare con delle cose nuove?
Alcuni ce li avevo davvero lì da tre anni, conta anche che ne Il figlio di Scar c’erano dei pezzi che addirittura avevo scritto a 13 anni, quindi non mi ci rivedevo più. Sarei potuto anche uscire in pandemia ma non l’ho fatto perché per me non aveva senso pubblicare un disco senza poterlo suonare dal vivo. Ho preferito aspettare che fosse davvero tutto finito.
La noia è un po’ il centro di questo disco, oltre che essere un argomento largamente battuto dai rapper che vengono dalla provincia. Che visione hai tu di quest’ultima? La associ alla noia però allo stesso tempo è il luogo in cui torni sempre.
Come tutte le cose la amo e la odio, alla fine ci sono affezionato. La noia è una rottura, però al tempo stesso ti porta a fare anche cose fighe. ‘Sta noia alla fine è pure una salvezza per me, penso che se fossi stato di un’altra città o di un altro ceto sociale non mi sarei messo a fare il rapper.
Ci sei affezionato tanto che a dicembre avevi presentato l’album esclusivamente a Caserta, la tua città, in anteprima assoluta. Se non sbaglio avevi scritto proprio “fuori questo venerdì solo a Caserta, dal vivo”. Com’è andata poi quella serata? Ti spaventa un po’ farlo uscire dalla tua cerchia?
Dal principio c’era già la voglia di farlo uscire ovunque, quindi quello non mi spaventa. Sicuramente è un disco molto intimo in cui dico delle cose che non avevo mai detto prima e ed è questa la cosa che un po’ mi fa paura. Per quanto riguarda la serata per me è andata molto bene perché ho visto sotto al palco un paio di ragazzi che erano proprio quelli a cui volevo parlare. Questa cosa mi ha fatto piacere perché so che le persone che dovevano capire i messaggi che do nel disco lo hanno fatto.
Ascoltando il disco infatti ci ho trovato davvero tanta sofferenza decisamente lacerante, come in Fuori dai guai, in cui dici “un anno fa volevo farla finita”. Nelle tracce parli di dipendenze e di una vita che sembra davvero averti preso a pugni in faccia. Ho avuto le stesse sensazioni ascoltando Primo soccorso di Ugo Borghetti, in cui anche lui ha tirato fuori cose molto forti del suo passato. Entrambi poi avete una figura in comune che è il Chicoria, che hai inserito anche in Piazza noia e prima ancora ne Il figlio di Scar. Che rapporto hai con lui? Pure lui è uno che nella vita ne ha viste tante…
Anche se l’avevo già messo nel disco precedente l’ho voluto anche in Piazza noia perché quando devo parlare di certe cose solo lui mi capisce. Per me lui è un fratello maggiore, rappresenta la forza della redenzione e del riscatto. È proprio uno che viene da quel contesto e ha davvero fatto quella vita che racconta, ma adesso si è completamente ripulito e non è una cosa facile. È passato da essere una rockstar a essere praticamente un prete. Per me è di ispirazione non solo artisticamente, ma anche a livello umano. È uno che ha trovato la sua pace.
“Vita violenta non è colpa nostra” mi ricorda molto quello che dicevi nella tua strofa in Criminali. Ricordo che la prima cosa che ho pensato quando ho ascoltato quel pezzo è stato “questi tre ci stanno davvero ridando indietro tutta la rabbia che gli abbiamo dato”. Era il 2019 ma mi pare che da allora la situazione sociale non sia poi così cambiata...
Assolutamente no, anzi per me è peggiorata. Vedo molta più violenza nelle strade tra i ragazzi giovanissimi e io spero solamente che qualcuno capisca che con la musica o qualsiasi altra cosa, ad esempio lo sport, uno può sfogarsi in modo diverso e uscire da determinate situazioni. Io sono convinto che tutta questa violenza sia dovuta anche agli anni in cui siamo stati chiusi e anche al sistema scolastico che deve cambiare. Purtroppo o hai un buon esempio in casa o sei fottuto. Lo stesso secondo me vale per i ragazzi benestanti, perché anche per loro c’è il rischio di annoiarsi e buttarsi sulla droga e sulle cazzate. Che tu venga da un contesto popolare o da una campana di vetro penso che sia importante trovare qualcosa che sia di sfogo.
Un’altra cosa che mi colpisce molto della tua scrittura è il dualismo che c’è tra la crudezza del racconto della vita quotidiana e la fragilità che emerge quando parli invece d’amore.
Diciamo che nel contesto da cui vengo quando tratti certe cose devi avere una corazza e essere duro. Quando parlo d’amore invece posso concedermi più vulnerabilità, un po’ come succede nel neomelodico.
A proposito di questo, Piazza noia non è un disco prettamente rap ma ci sono molte influenze, che cosa hai ascoltato che ti ha ispirato?
Infatti quattro o cinque pezzi li ho fatti prendendo proprio come reference robe che non sono rap, tipo i Gorillaz, i Nirvana e gli Oasis. Non sono miei ascolti, però quando ho sentito certi pezzi mi hanno trasmesso qualcosa e mi sono detto “voglio provare a fare qualcosa di simile”.
Parlando invece di collaborazioni, oltre a Speranza e Massimo Pericolo che ormai per te sono famiglia ci sono artisti con cui hai lavorato per la prima volta, come Disme e Nerone. Mi racconti questi incontri?
Quello con Disme è uno dei primi pezzi che ho fatto. Eravamo ancora in piena zona rossa e l’abbiamo fatto in videochiamata, io stavo a Caserta e lui a Milano ed era quasi un mezzo freestyle. Mi è piaciuto subito perché era proprio una cosa fatta di getto, tanto che non ho ri-registrato la strofa perché volevo rimanesse una cosa genuina. Per quanto riguarda Nerone invece io sono un fan delle sue strofe tristi. Mi piace quando fa il tecnico ma quando fa quelle strofe un po’ dark come mood per me è davvero uno dei migliori. Quando ho sentito la base del pezzo, così malinconica, ho pensato subito che ci volesse lui. Per me è la strofa più bella del disco, mi ha fatto un regalo enorme.
Quando ho visto nella tracklist Speranza e Massimo Pericolo non ho potuto fare a meno di pensare a quel glorioso tour che avete fatto del 2019. Io ero presente a Milano e ricordo che poche altre volte ho percepito un tale coinvolgimento da parte del pubblico e la sensazione era proprio quella di vedere tre amici che stavano vivendo qualcosa di incredibile. Tu che ricordi hai di quel periodo?
A dirti la verità quasi nessuno, ci siamo divertiti un po’ troppo! Diciamo che è stata una cosa che mi è caduta addosso un po’ come un fulmine, anche perché avevo solo 20 anni. Noi l’abbiamo presa esattamente come hai detto tu perché pensarla in altro modo sarebbe stato troppo strano. Era esploso tutto troppo in fretta, era tutto davvero troppo frenetico e io non ci stavo capendo più niente.
Restando in tema di esplosioni, negli ultimi anni la scena campana ha preso sempre più piede nel rap italiano; da persona che è dentro questa realtà, pensi ci sono delle differenza tra il rap che arriva da Napoli e quello che arriva dalla provincia, come appunto è Caserta?
Non credo, penso che l’unica cosa che noi non abbiamo di Napoli è quella parte più sentimentale, d’amore. Quello che facciamo noi è molto più crudo, più dark.