Tutti dovrebbero ascoltare le canzoni di Shygirl, non solo le donne
Blane Muise è una delle artiste più rilevanti del panorama pop elettronico britannico. La sua musica è un calderone di stili tessuti insieme da un racconto personale e universale della femminilità
La copertina di Nymph, in cui il suo viso è sfocato, potrebbe trarre in inganno: Shygirl non ha alcuna paura di mostrarsi per ciò che è. E Blane Muise è tante cose, come la sua musica e il suo album di debutto. Pop, dance, elettronica, rap e deconstructed club, come amano dire i critici d’oltremanica. Shygirl è l’emblema della popstar moderna: non segue una direzione prefissata, ma la sua traiettoria è determinata dalle esperienze e dalla realtà che la circonda. E la sua è sempre stata piuttosto varia. Blane è nata nel sud di Londra: una madre per metà canadese e per metà gallese e un padre inglese di origini caraibiche, precisamente dall’isola di Grenada. Un caleidoscopio di culture che l’hanno abituata fin da piccola a cogliere la bellezza insita nella diversità.
La libertà, invece, l’ha scoperta quando ha iniziato a comprendere se stessa. Un processo interiore che, ironia della sorte, è cominciato nella città inglese dove il melting pot culturale è sempre stato un carattere distintivo: Bristol. La nostra chiacchierata è partita proprio dal lì, dal polo multiculturale che negli anni Ottanta ha accolto il reggae e la dub e li ha rigurgitati nel decennio successivo sotto forma di trip hop e drum & bass.
L’intervista a Shygirl non è avvenuta in una settimana qualunque, ma il giorno prima della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, pochi giorni dopo l’ennesimo femminicidio avvenuto in Italia. È sembrato quasi un segno del destino, perché Blane è una donna fiera, forte, horny, ma anche vulnerabile. Ne canta e ne scrive in tutte le sue canzoni, dove si mette a nudo e fa sfoggio di tutte le sfumature della sua femminilità. Anche quelle che, per colpa di un retaggio patriarcale, qualcuno non si aspetterebbe da una ragazza come lei. «La mia musica è umorale – mood driven – perché canto quello che sento e quello che sono, ma questo non vuol dire che la possano ascoltare soltanto le donne».
L’intervista a Shygirl
Dopo le scuole superiori sei andata a studiare fotografia a Bristol. Un ambiente multiculturale come quello, di certo, avrà lasciato un’impronta indelebile sulla tua arte.
Bristol mi ha ispirato in tutto, perché è stata la città dove per la prima volta sono andata a vivere da sola. Mi ha influenzato soprattutto per il senso di libertà che respiravo in quel periodo e che si respirava nei suoi luoghi. Con libertà intendo, non solo quella che mi stavo conquistando andando a vivere lontano dalla mia famiglia, ma anche quella delle feste. C’erano un sacco di eventi gratuiti e di party incredibili, alcuni anche fuori dal centro abitato. E io ero lì che cercavo di conoscere me stessa.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, Bristol è stata caratterizzata da nuovi generi, dalla drum & bass al trip hop, suoni che ritornano nelle tue canzoni. Quindi anche a livello musicale è stata importante.
Se devo essere sincera in quel periodo non ero nemmeno troppo concentrata sulla musica. Quando parlo di influenza non mi riferisco quindi semplicemente alla musica che in quegli anni stava esplodendo. Ovvio, ascoltavo trip hop e drum & bass, quel tipo di musica era letteralmente ovunque, così come era facile trovare e scoprire nuovi generi. Bristol è sempre stata piena di buona musica. Tuttavia, per me, è stato più un periodo di scoperta interiore, attraverso i nuovi amici e la nuova città. Fino a quel momento avevo sempre vissuto a Londra e, per la prima volta, ero io la mia unica guida. Ripensandoci, non si tratta nemmeno della città in sè, ma proprio del fatto di sentirmi libera.
Questo senso di libertà traspare molto dalla tua musica e dai tuoi testi. Parli di relazioni amorose e soprattutto di sesso, qualcosa che in Italia, per le artiste donne, per molto tempo è stato un tabù. Hai mai ricevuto delle critiche al riguardo? Qual è stata la prima reazione di chi ti circondava quando hai iniziato a cantare di certe tematiche?
Devo dire che, per fortuna, non ho mai avuto la sensazione di infastidire qualcuno con i miei testi, né ho mai ricevuto delle critiche. Invece, ho sempre avuto l’impressione che tutti fossero molto ricettivi e soprattutto stupiti. Non tanto per i temi che trattavo, quanto per il fatto che era difficile per loro pensare che quelle stesse tematiche provenissero potessero essere cantate da una ragazza come me. Non dovrebbe creare scalpore questa cosa dato che, secondo la mia prospettiva, l’industria musicale è stracolma di canzoni e testi che fanno riferimento al sesso. In tutti i contenuti, sia musicali che televisivi, che ancora oggi seguo, c’è questo immaginario del sesso. Per cui, quando ho iniziato a scrivere i miei brani, non credevo di star inventando chissà che, c’era già tutto in giro. Io lo stavo riarrangiando secondo la mia prospettiva.
Questa settimana in Italia un ragazzo di 22 anni ha rapito e ucciso la sua ex fidanzata (Giulia Cecchettin n.d.r.) il giorno prima della sua laurea. È il 103° femminicidio quest’anno. Il problema è culturale e risiede nell’idea patriarcale che un uomo abbia il diritto di controllare e decidere cosa una donna debba fare, come debba comportarsi, vestirsi e fare musica. Dal mio punto di vista, il tuo modo di approcciare la musica è illuminante, oltre che fonte d’ispirazione.
Sono molto orgogliosa di avere una voce forte in merito e percepisco il dovere di esprimere cosa penso e come mi sento. La mia identità è l’insieme di tante cose diverse. Come donna posso essere forte, avere voglia di fare sesso, altre volte si tratta di essere semplicemente innamorati. Questo significa anche mettere in mostra la propria vulnerabilità perché credo che sia importante mostrare tutti i lati umani che si possiedono.
L’essere donna è una parte fondamentale di ciò che sono e di ciò che la mia musica dice. E sono molto contenta che il mio pubblico l’abbia capito, che si diverta e che celebri il mio essere. Quando ai miei concerti guardo gli spettatori e scorgo donne e uomini, ragazzi giovani e persone più grandi, capisco che sto facendo la cosa giusta. È gratificante vedere tanta gente così diversa che, nonostante le differenze, si ritrova in qualcosa che canto. Perché non devi essere per forza una donna per ascoltare e “sentire” le mie canzoni e credo che questo valga per tutti gli artisti in generale.
Quindi, secondo te, la musica può assumersi l’onere di cercare di cambiare il modo di pensare della gente?
Sì, credo che, non solo la musica, ma l’arte in ogni sua forma possa aiutare ad ampliare gli orizzonti e le prospettive. Anche semplicemente coltivando l’empatia e creando nuovi colori. Tutto questo può aiutare le persone a relazionarsi, oltre che con me, con mondi e modi di vivere diversi. In qualche modo credo che la musica possa trasformare il modo in cui vengono percepiti determinati messaggi perché riesce a superare anche le barriere linguistiche. Può trasmettere e immortalare un’emozione senza che tu debba comprendere i testi. Per me è sempre stata lo strumento più importante, il più universale. Quando lavoravo nella fotografia, oppure durante i miei progetti come art director, alla fine della giornata è sempre la musica che lega tutto insieme.
Nel 2019 hai aperto un concerto di M¥SS KETA. Lei è diventata ormai un’icona e un simbolo del femminismo e del movimento queer in Italia. Anche la tua musica, soprattutto negli Stati Uniti, è diventata un manifesto delle comunità black queer e LGBTQIA+.
Quella con M¥SS KETA è stata un’esperienza pazzesca. Abbiamo suonato a Milano, in un posto che conteneva appena 4mila persone (Alcatraz n.d.r.) e potevo sentivo il calore della gente molto vicino. È molto bello riuscire a essere apprezzati da una comunità a tal punto da rappresentarla. Mi sento come se ne facessi parte anch’io. D’altronde, la comunità black queer è quella che per prima mi ha accolto e mi ha dato la possibilità di trovare la mia voce, soprattutto quando ho iniziato a esibirmi dal vivo.
Mi ricordo, per esempio, dei concerti che tenevo in diversi club black queer di Londra. Io non facevo parte di quella comunità e non avevo canzoni che parlassero in modo specifico di quelle tematiche. Anzi, cantavo di me stessa e del mio modo di vedere il mondo, per cui sono molto felice di essere inconsapevolmente riuscita a parlare anche per loro e che loro stessi si siano ritrovati in parte in ciò che portavo sul palco. È davvero bello essere in grado di fare musica davanti a una folla di cui percepisci di poter far parte.
A Bristol, Shygirl ha sperimentato e trovato per la prima volta la propria libertà. Invece, quale è stato allora il tuo primo impatto con la musica? So, per esempio, che tuo nonno ha suonato con gli Aces.
Sì, pensa che io fino a 12 anni non lo sapevo neppure, perché ha smesso molto prima che io nascessi e nessuno in famiglia me ne aveva mai parlato. Poi un giorno ho visto un suo vecchio video a Top of The Pops e ho scoperto che era un musicista.
In generale il mio primo impatto con la musica è stato quello della classica ragazza che ascolta ciò che passa in radio o in tv. In casa paradossalmente, nonostante il passato di mio nonno, la musica la si ascoltava, ma non la si faceva. Almeno fino a quando i miei genitori non mi hanno incoraggiato a suonare il piano. Si ascoltava di tutto e in qualsiasi momento. Tra mia madre e mio padre si passava dalle Destiny’s Child ad Aphex Twin. Il fatto che i miei genitori abbiano sempre avuto dei gusti molto vari mi ha abituato e insegnato ad approcciarmi all’ascolto di qualsiasi tipo di musica.
Questo si riflette nei tuoi lavori che sono difficili da categorizzare: spazi dal rap, al pop, fino all’elettronica, passando per l’R&B. A te come piace definirti?
Mood driven. Le mie canzoni sono molto influenzate dal mio umore o da uno stato d’animo in generale. È come se, attraverso la musica, sia quella che ascolto, che quella che scrivo, io cercassi qualcosa che rispeccha i miei sentimenti. La cosa bella è che esistono così tanti generi diversi che ogni giorno continuo a scoprirne di nuovi. In un certo senso le fondamenta della mia musica sono costituite da ciò che i miei genitori ascoltavano e dai suoni con cui sono cresciuta. Da lì, sono partita alla scoperta. Molto deriva dalle esperienze che vivo, soprattutto dagli amici e dalle persone che incontro.
Per esempio, certi tipi di musica mi riportano a certi periodi della mia vita e mi ricorda di quello che ho fatto in quel momento. Sai, poi, come dicevamo, ogni città ha le proprie scene musicali e quindi, viaggiando molto, è inevitabile essere in qualche modo contaminati. Per me usare i riferimenti sonori di altre persone diventa un modo per costruire un linguaggio per me stessa. Come è avvenuto a Glasgow con Sega Bodega.
Il primo album Nymph
A tal proposito, per scrivere il tuo primo album Nymph, hai scelto di trasferirti vicino Brighton dove hai lavorato, tra gli altri, proprio con Sega Bodega e Mura Masa. Come mai una scelta del genere?
La scelta è stata banalmente dettata dal fatto che stavo cercando un luogo non troppo lontano e ho trovato questo posto, appena fuori Brighton, in aperta campagna. Era perfetto perché desideravo essere lontano dal rumore della città, per concentrarmi sul lavoro e sul primo album. Ho scoperto che mi si schiariscono le idee quando sono immersa nella natura.
È stato divertente, oltre che rilassante, lavorare al disco con tutti questi amici. Abbiamo prenotato una casa su Airbnb e ci siamo trasferiti lì per tutto il tempo, portandoci dietro l’attrezzatura e quant’altro. L’atmosfera era rilassante: registravamo in salotto o in cucina e, nel frattempo, qualcun altro preparava il pranzo o la cena. Voglio sempre che l’esperienza, quando faccio musica, sia divertente, anche solo per avere quegli stimuli di cui parlavo prima. Il mio processo di scrittura parte dalle mie esperienze e dai miei ricordi e l’unico modo per crearseli è viverli al meglio, no?
Possiamo dire che quest’approccio ha funzionato, dato che Nymph è stato candidato tra i migliori album britannici agli ultimi Mercury Prize. Cosa ricordi di quella serata e della tua esibizione?
Essere presi in considerazione per un premio come il Mercury Prize, che è una sorta di istituzione, fa piacere. Per me è stata un’esperienza particolare perché era passato diverso tempo dall’uscita del mio primo album e stavo già scrivendo nuova musica. È stato come un viaggio a ritroso in cui ho potuto rivisitare e rivivere mentalmente quella fase della mia vita in cui ho scritto il mio primo disco. Il mio personale addio a Nymph. Ho davvero apprezzato il fatto che sia stato riconosciuto perché, quando ho iniziato a scriverlo, volevo dimostrare a me stessa che ero in grado di fare musica. I primi tempi ho anche dovuto fare i conti con la “sindrome dell’impostore”. Quindi essere invitata ed esibirmi, insieme ad altri grandi artisti, è stata una conferma: sì, sono una musicista anch’io.
Tra l’altro, il percorso di Nymph è durato più di un anno, dato che poi è uscita anche la versione deluxe con diversi remix dei brani.
Io la ritengo più una versione deluxe, più che un album di remix. Oggi ci sono vari modi di remixare una canzone e per me è stato come continuare una conversazione. Sì, sono partita dalle canzoni originali di Nymph, ma poi, lavorando per la prima volta con vari produttori e artisti incredibili, le ho reinventate. È stato interessante vedere come i miei brani sono stati percepiti e reinterpretati dagli altri artisti. Grazie a loro, quelle canzoni, hanno potuto trasmettere qualcosa che prima non era emerso. Avevano ancora tanta vita ed è stato davvero divertente per me rimanere in quel mondo un po’ più a lungo ed esplorare tutte le direzioni alternative che potevano essere percorse.
Un po’ quello la stessa cosa che hanno fatto i Jockstrap con I<3UQTINVU.
Sì, volevo dimostrare quanto il mio lavoro musicale fosse fluido. Il pubblico, quando pubblichi un album, si crea subito un’opinione e farà sempre riferimento a quel disco o a quella canzone che hai scritto in passato. Per cui io volevo dimostrare di poter tornare indietro, cambiare qualcosa, un passaggio di drum machine, un sample, o addirittura l’intero pezzo. L’essere in grado di giocare con le demo di quei brani, anche dopo la loro pubblicazione, testimonia quanto siano ancora vivi e quante cose potenzialmente abbiano ancora da dire.
Shygirl sarà in concerto al Circolo Magnolia di Segrate (Milano) il prossimo 12 dicembre, i biglietti sono disponibili su TicketOne.