Tommy Vee: il mestiere del DJ, contro gli eccessi di tecnologia
Tommy Vee: DJ e produttore amante della musica, dei groove e dei suoni che cerca di inserire nel miglior modo possibile nelle sue produzioni
Sarà un’estate ricca di date quella di Tommaso Vianello, noto al grande pubblico come Tommy Vee, DJ e produttore amante della musica, dei groove e dei suoni che cerca di inserire nel miglior modo possibile nelle sue produzioni e serate in modo da rendere tutto speciale.
Partiamo dalla tua ultima produzione, Teach Me. Quando è nata l’idea? A distanza di qualche settimana sei soddisfatto del risultato che sta avendo su YouTube e Spotify?
Sono abbastanza soddisfatto, dato che il mio desiderio era che fosse a metà fra tutto, che è un po’ quello che mi sento io, non essendo un DJ di tendenza, ma allo stesso tempo non sono un DJ commerciale puro. Amo le cose ritagliate su quello che sono io, soprattutto a quest’età. Volevo fare una cosa un po’ crossover, che avesse delle caratteristiche contemporanee ma anche quel gusto retrò, strizzando l’occhio a certe sonorità degli anni ’80. Il metodo che normalmente uso con il mio team di produzione non ci vede lavorare insieme contemporaneamente, ma al massimo in due o tre alla volta. Quello che faccio è portare l’idea del pezzo, che parte da sample, oppure canticchio. Passando molte ore in auto o in aeroporto, uso il registratore del telefono per canticchiarmi melodie e armonie, dopodiché vado in studio, lo suono e sviluppo tutto il resto. In questo caso il suono è deep, anche perché mi stanno piacendo molto le contaminazioni che ci sono tra deep house, hip hop, elettronica e French Touch.
Sei un nostalgico secondo cui la professione del DJ era quella in cui bisognava portare valigie di dischi oppure sei pro tecnologia anche se questa può dare la possibilità a chiunque di intraprendere questo mestiere?
Sono un moderato, nel senso che mi pongo in mezzo a queste questioni: la tecnologia può essere molto utile permettendomi di non spaccarmi più la schiena a portare valigie di dischi pesantissime. Tuttavia l’eccesso di tecnologia toglie al nostro mestiere una parte fondamentale per capire cosa sia quello che facciamo. Se tu hai il computer che ti mette tutto a tempo, fai fatica a capire che cos’è un groove, com’è l’incastro ritmico, come alcune cose stiano bene con altre e non il contrario: il computer ti fa star bene tutto. Quando si utilizzavano i vinili dovevi essere molto preparato perché non c’era niente di meccanico, eri tu che creavi tutto quello che si respirava in pista. Però l’aspetto tecnico del mio lavoro, ovvero il missaggio, non è al primo posto. A mio parere la cosa fondamentale è la sensibilità e quella nessuna macchina te la può insegnare. È la prima cosa che deve avere un DJ: ti permette di capire chi hai davanti, di interpretare l’umore della pista. Se non ce l’hai, puoi anche essere il più bravo mixatore del mondo ma la tua serata difficilmente sarà un successo.
I tuoi riferimenti del settore sono stati negli anni i Masters At Work, David Morales e Daft Punk, ma credi che ci sia stato un ricambio generazionale? Se sì, chi pensi siano le nuove star del mondo house?
Mi sono approcciato all’house ascoltando Nachos e Morales perché erano loro in quel momento il lume portante. Di lì a poco tempo sono stato travolto totalmente dai Masters At Work e successivamente mi è esploso il cervello per i Daft Punk. La mia conoscenza di Thomas Bangalter risale a molti anni prima, al tempo in cui insieme a Spiller producemmo il singolo Laguna. Ci conoscemmo a Miami, erano da poco fuori con il singolo Da Funk ed erano pronti ad uscire con l’album Homework. Noi eravamo sconvolti dalle loro capacità tecniche. Un ricambio generazionale c’è stato però i più grandi DJ del mondo per me rimangono i vari Carl Cox, Danny Tenaglia, Eric Morillo. Carl Cox è percepito come DJ techno ma se lo senti suonare di pomeriggio in spiaggia fa molto anni ’70, così come in un DJ set in terrazza è capace di suonare funky house. In pratica mette le cose che piacciono a lui a seconda del contesto e per me questo è fare il DJ.
Parliamo dei tuoi DJ set di quest’estate. Girerai l’Italia, oltre ad avere diversi appuntamenti al Blue Marlin di Ibiza. Delle date che chiudi, in quante riesci a suonare ciò che vorresti e in quante ti adatti al pubblico che hai di fronte?
Secondo il mio punto di vista un DJ set è sempre e comunque un compromesso. Se suonassi solo la musica che piace a me non sarebbe più un lavoro. In quei momenti invece sono lì per lavorare, per far divertire la gente. Soprattutto recentemente, con l’affievolirsi del fenomeno EDM, mi riesce molto più facile. I Swedish House Mafia, quando iniziarono a fare quegli esperimenti in cui mescolavano la house con un’elettronica nord europea partendo da un gusto alla Daft Punk, come nel singolo One, a me piacevano molto. Non mi è piaciuta la deriva che poi ha preso l’EDM. Quando la qualità si è abbassata ho preso le distanze, tornando a fare solo quello che piaceva a me. Credo che la cosa più importante per un DJ sia la fedeltà che durante gli anni devi avere verso te stesso.
Nella tua carriera musicale hai fatto davvero tante cose: produzioni importanti, remix per grandi artisti, coach per un talent di DJ. Dove hai trovato più difficoltà?
Difficoltà reali non ne ho mai trovate. Nel momento in cui sceglievo ero convinto che sarebbe stata una cosa che mi avrebbe fatto lavorare senza fatica. Quando passo 10 o 12 ore in studio, per me non ci sono problemi perché faccio quello che mi piace e quindi non accuso stanchezza. Il progetto più faticoso riguardava la realizzazione di quattordici mash-up, completamente risuonati, riprodotti e masterizzati, che dovetti fare in venti giorni. Sono abbastanza stacanovista e la mia ambizione finisce dove finisce il buon gusto. Cioè non vorrei diventare più famoso di così se non facendo ciò che realmente mi piace. Se devo scendere a compromessi per aumentare popolarità e successo, evito.