Buon compleanno Hip Hop! 48 anni di Cultura immortale
La cultura Hip Hop ha davvero cambiato il futuro e plasmato radicalmente il mondo dell’intrattenimento per come lo conosciamo oggi. Ecco 5 motivi che ne dimostrano l’importanza fondamentale nel nostro presente
Era l’11 agosto del 1973 quando nel fatiscente quartiere del Bronx, a nord di Manhattan, un tale chiamato DJ Kool Herc diede il primo party hip hop al 1520 di Sedgwick Avenue. Chissà cosa avrebbe pensato, sapendo che se non fosse stato per quel giorno, gran parte della nostra cultura recente avrebbe preso un’altra piega. La storia dell’hip hop è ormai scritta in qualsiasi formato, dai libri ai saggi, dai fumetti ai film. Fino a serie TV recenti che l’hanno raccontata in tutti i modi, in salsa romanzata o come documentario. Quella di Sedgwick Avenue – completa di flyer ufficiale, con cui si è risaliti alla data dell’11 agosto – fu la prima festa hip hop della storia. E Clive Campbell, vero nome di Herc, ebbe il merito di dare luce a una delle culture più potenti che il nostro mondo abbia mai conosciuto.
Proprio oggi, nel giorno del suo 48esimo anniversario, abbiamo deciso di analizzare cinque motivi per cui la cultura hip hop è stata fondamentale per costruire la struttura dell’intrattenimento – e non solo – degli ultimi cinquant’anni. A partire dalla figura del DJ che, se non fosse stato per pochi pionieri, non sarebbe mai arrivata a conoscere tutte le magie che possono compiersi sui giradischi. Per non parlare del rap: il suo arrivo, accanto al DJ, è stato ben più di qualcosa di rivoluzionario. Mentre che dire dei b-boy, i ballerini che si scatenavano al ritmo dei breaks, suonati durante le feste come quella di Herc? O ancora dei graffiti, nati come forma di ribellione per marcare il territorio delle gang, oggi evoluti (e commercializzati) come visionaria ed eclettica forma d’arte.
Questo ed altro nel nostro viaggio, che parte dal Bronx e arriva in tutto il mondo. Un percorso che non si esaurisce dal punto di vista artistico, ma che è stato in grado di influenzare tanti aspetti della nostra vita quotidiana. Buon compleanno Hip Hop, si parte!
48 anni di Hip Hop, 5 motivi per festeggiare
La figura del DJ
Dalla festa di Sedgwick Avenue fino ai block party successivi al battesimo dell’hip hop, la figura del DJ è sempre stata fondamentale per animare la sala da ballo (spesso piccola e piena di gente, nel Bronx anni ‘70). Su attrezzature rimediate solo da chi poteva permettersi di comprarle – per l’epoca, possedere un giradischi era roba da ricchi – si facevano girare le hit del momento. Piccola chicca: se non fosse stato per il blackout del 1977 nel Bronx, centinaia di altre persone non avrebbero potuto ancora avvicinarsi alle attrezzature. Quel giorno, infatti, vista la popolarità delle feste e la voglia di diventare l’idolo dei party, tanti ragazzi fecero razzia di impianti audio e mixer nei centri commerciali. Il giorno dopo, nuove crew di DJ spuntarono in ogni angolo della città.
Oggi, a Herc, a Grandmaster Flash e al suo protetto Grand Wizard Theodore si deve l’invenzione di tecniche come lo scratch, o il beat jugglin, o il cutting sui giradischi. Per far scatenare la folla, che amava particolarmente le parti strumentali dei brani, i cosiddetti breaks, questi pionieri inventarono un modo per suonarli a ripetizione. Dai loro esperimenti e dall’apporto dei sound da festa come quelli di Afrika Bambaataa, sono nati i DJ che conosciamo oggi. Pensate a tutte le competizioni come il DMC, l’ITF Eastern Emisphere, il Red Bull 3Style e molti altri contest a livello internazionale che vedono i DJ di tutto il mondo sfidarsi nelle acrobazie sonore più assurde. Come avremmo fatto, senza l’intuizione e l’intraprendenza degli anni ‘70?
La breakdance
Abbiamo citato i breaks, quelle ritmatissime parti di un brano che i DJ sceglievano con cura per creare nuove canzoni e animare le feste. Breakers, b-boy o breakdancers, fu il nome che acquisirono i “ballerini” più scaltri dell’epoca quando si esibivano nei cosiddetti cyphers, i cerchi di persone in cui, uno alla volta o anche crew contro crew, davano spettacolo con mosse di danza mai viste prima. La loro eredità proviene dagli scontri fra le gang, e di quella più grande, i Black Spades, era leader proprio Afrika Bambaataa. Vedendo lui stesso il potenziale positivo della scena hip hop, decise di dirottare la violenza delle strade nei block party.
Tornando ad oggi: vi viene in mente qualche show, anche televisivo, in cui si vede ballare la breakdance? Più di uno? Certo, perché è diventato uno degli stili di danza più studiati, insegnati e diffusi dei nostri giorni. Inoltre, le movenze e le figure di questa disciplina sono state assorbite ed emulate anche da altri stili. Fino a contaminare completamente la danza moderna e lo stesso hip hop, che è invece l’insieme delle danze urbane che comprendono anche stili come il locking o il popping. Esistono oggi migliaia di competizioni di danza e milioni di ballerini appassionati in tutto il mondo che ne studiano e diffondono il verbo. Un esempio? Qui sotto:
Il rap, la trap, la musica “urban”
A proposito di danze urbane: il ballo non è l’unico elemento dell’hip hop ad essersi evoluto in modo quasi incontrollabile. Quando i DJ si accorsero che non potevano esibirsi sui giradischi e contemporaneamente parlare al microfono, fu compito degli “MC” intrattenere il pubblico. Queste figure, spesso, accostavano parole in rima seguendo il ritmo dei beat, e più le rime erano ad effetto più il pubblico si entusiasmava. Il rap era ufficialmente nato e non si sarebbe più fermato.
Dai primi MCs, come Melle Mel, Cowboy e Kid Creole, fino ai primi rapper veri e propri come Kurtis Blow che presero il controllo di Harlem, questo amore per le rime si trasformò in quello che oggi è il genere musicale maggiormente sperimentato, prodotto e suonato al mondo. In tutte le sue infinite declinazioni: dapprima classificandosi in vari sottogeneri in voga negli USA, come il Dirty South, il gangsta rap, il conscious. Poi, l’esplosione in tutto il mondo. Dalle gare di freestyle ai dischi di platino, fino all’evoluzione in trap e simili, che hanno scritto un nuovo capitolo della storia della musica. Pensateci: anche il brano più pop oggi in alta rotazione ha in sé degli elementi del genere urban. Un nome che proviene, ovviamente, proprio dal contesto “urbano” in cui ha preso vita l’hip hop e che ci ha letteralmente ipnotizzato.
I graffiti
Chi oggi non è fan della street art, di certo sta mentendo. Vi sarà capitato di seguire assiduamente le vicende delle opere di Banksy, o di vedere gli immensi muri dipinti da Blu, o di avere almeno un gadget con gli omini di Keith Haring. Il tutto debitamente commercializzato attraverso mostre, documentari, prodotti di vario tipo. Ebbene, ciò che oggi è un ricchissimo business, in realtà è scaturito dalla generazione che ha dato il via ai graffiti in contemporanea allo sviluppo del rap e della breakdance (senza una lira in tasca).
Nella nostra storia odierna, il writing è più che un elemento di pura ribellione generazionale. Tanta di quell’arte primordiale, spesso e volentieri considerata da tanti mero “vandalismo”, è oggi dappertutto. Partita dalle metropolitane delle aree urbane, la spray art o aerosol art si è evoluta dal concetto di “marcare il territorio” appartenente alle famose gang di cui parlavamo prima, all’essere un elemento fondamentale dell’hip hop.
Essere un “writer”, ai tempi, faceva di te un membro di una comunità “sovversiva”, tanto perché voleva andare contro un sistema, quanto perché voleva essere riconosciuta in tutta la sua creatività. Vi consiglio di recuperare i libri fotografici di Martha Cooper, fra gli altri, una delle fotografe storiche che ha immortalato su carta le opere urbane dei tanti artisti dell’epoca. Capirete perché personaggi come Phase 2, il creatore del bubble style, o Tracy168, fautore del wild style, siano stati fondamentali per lo sviluppo di un tipo di espressione artistica, che oggi ritroviamo ovunque. Dalle mostre alla moda, fino agli oggetti di tutti i giorni, ma soprattutto, nell’immaginario collettivo, che ha reso importante un’arte che nasce dalla strada e che è destinata a rimanere gloriosa proprio per questo motivo.
L’eredità delle quattro discipline dell’Hip Hop
C’è chi dice che l’hip hop conti quattro discipline: l’appena citato writing, il rap, la breakdance e l’arte del DJing. Altri, invece, in aggiunta a questo “dogma” tramandato dai pionieri, citano spesso il beatboxing come quinta disciplina. Sono d’accordo in parte: oggi, infatti, oltre a questi elementi imprescindibili senza i quali l’hip hop non sarebbe stato davvero quello che conosciamo, esistono molti altri elementi che ne catturano l’essenza e che continuano a diffonderne gli insegnamenti nel tempo.
Non solo ritroviamo l’hip hop nel modo in cui ci vestiamo, secondo le mode dettate dagli artisti – che siano rapper o trapper – oggi inventori di brand che giocano sul nome della loro label o della loro crew. Guardate le scarpe di Kanye West o le giacche del Wu-Tang Clan. In Italia, prendiamo ad esempio Machete, che sull’appartenenza a una crew di DJ, producers e rapper ha costruito un impero che tocca il fashion design e l’imprenditoria. L’hip hop è anche un linguaggio, un insieme di principi. Essere “real”, essere “hip hop” sono concetti entrati nel lessico di tutti i giorni. E che appartengono a una generazione che ha promosso innanzitutto i valori di fratellanza, di lotta al razzismo e alla violenza, di rispetto reciproco e di unione sotto un’unica passione.
48 anni di una Cultura che ha cambiato le vite di molti, senza la quale nulla intorno a noi sarebbe stato lo stesso. E la prossima volta che uscite di casa, guardatevi intorno e pensateci: quanto, dell’hip hop, arricchisce ogni minuto della vostra giornata?