Hip Hop

Palmitessa: «In “No Feat” continuo la ricerca della mia casa musicale»

La giovane artista pugliese ha pubblicato il suo primo lavoro ufficiale, che presenta il progetto Palmitessa al game senza l’aiuto di collabo

Autore Filippo Motti
  • Il21 Novembre 2020
Palmitessa: «In “No Feat” continuo la ricerca della mia casa musicale»

Palmitessa/fonte:Ufficio Stampa

La corsa alla collaborazione di cartello è ormai lo sport più praticato nel campionato rap italiano (e non solo). È risaputo, una spalla importante può servire. Ottimo biglietto da visita per un pubblico più grande, efficace passpartout per più di una playlist e via più breve per beneficiare dell’hype altrui, soprattutto all’inizio. Per il suo debutto, Palmitessa ha fatto tutto il contrario.

Il 16 novembre è infatti uscito No feat, il debut project dell’artista pugliese. Un lavoro vario, in cui la giovane arruolata tra le fila di Danti ha potuto mettere in mostra tutte le proprie skills senza spinte o nomi forti a cui appoggiarsi per spingere il disco.

Anche per questo motivo, considerata la tendenza imposta dal mercato negli ultimi anni che infarcisce di nomi ogni release, No Feat merita attenzione. Ma il materiale forte del disco non si riduce certo alle assenze. C’è molto da scoprire, tra cui la sensibilità di Palmitessa nello sviscerare questioni personali. Di questo ed altro abbiamo parlato direttamente con lei.

No feat. Una scelta controcorrente.

È un progetto con cui mi presento senza filtri. L’assenza di feat è dovuta al non volermi accostare ad un nome più grande. Questo è il mio primo progetto ufficiale, voglio iniziare il mio percorso da sola.

Il rap dissacrante è nelle tue corde. Chi ti ha ispirato?

Quando ero più piccola ascoltavo tutt’altra musica. Avevo un gruppo punk-rock, quindi ascoltavo molto punk, Placebo… per quel che riguarda il rap italiano sono cresciuta con Fabri Fibra, mentre all’estero Busta Rhymes, Eve, Missy Elliott, Gwen Stefani…

Scrivi che «questo albergo non è una casa». Una barra autobiografica? Hai trovato fissa dimora per la tua musica?

Riprende una frase che mi diceva sempre mia madre (“Questa casa non è un albergo!”) perché sono sempre stata molto disordinata. Poi comunque avendo viaggiato molto tra Londra e Milano mi manca abbastanza la dimensione di casa. Per la mia casa musicale non credo di averne trovata una in particolare, c’è tanta contaminazione nel mio lavoro.

In No Feat i sound si rincorrono, dal rap alle chitarre. C’è un genere lontano dalle tue corde con cui vorresti confrontarti?

Ti direi il mondo della dance, ma bene o male con Cool mi ci sono già avvicinata. È il brano più distante da quello che avrei pensato di poter fare.

Ad alcune donne (e non solo) sta stretto il linguaggio del rap. Credi che ci sia un modo giusto e inclusivo di essere espliciti?

Secondo me bisogna sempre partire da quello che una persona ha da dire. L’importante è non cadere nella volgarità. Io cerco sempre di esprimere un concetto in maniera esplicita senza risultare volgare.

Ti riesce spontaneamente o devi ritornare spesso sulla scrittura?

Ci arrivo in maniera abbastanza naturale. Quando scrivo parto sempre dal mio vissuto, e mi lascio andare al flusso di coscienza.

Danti ti ha preso a lavorare sotto la sua ala. Quali sono i pro e i contro di collaborare con una figura così autorevole del panorama musicale italiana?

L’aspetto “negativo” potrebbe essere che ti associano sempre alla sua figura, quasi avesse scritto lui tutte le parole, ma non è una cosa che mi nuoce particolarmente. Per il resto è nell’ambiente da tanto tempo, e riesce a tirar fuori da me cose che non sapevo di avere. Come il rap, ad esempio. Io venivo dall’autorato e ho sempre scritto in maniera più pop. Lui è riuscito a tirar fuori la mia parte più cazzuta.

Scrivi «Non sei nero!». C’è appropriazione culturale nel rap nostrano?

Secondo me sì. Vedo che molti trapper utilizzano il linguaggio delle gang americane. Direi che c’è un’appropriazione di quel lessico. Penso ci si debba raccontare per quello che si è e quello che si vive.

Quanto ti ha cambiato musicalmente Londra?

Per quel che riguarda il processo creativo non molto. Quando mi sono trasferita lì non avevo ancora iniziato a scrivere in italiano, dato che usavo l’inglese con il mio gruppo. A livello personale ha influito molto. Vengo da una piccola città, e trovarsi in un posto come quello è tutta un’altra cosa, dal modo di pensare al poter essere se stessi senza troppe rotture di cazzo.

Cambia anche la concezione dei live?

C’è molto più interesse e coinvolgimento nell’andare ad ascoltare un gruppo nuovo, e non sempre gli stessi artisti conosciuti.

Andiamo per un attimo contro il titolo del disco. Feat dei tuoi sogni?

Fibra, tutta la vita.

Ascolta No Feat di Palmitessa

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