Il viaggio come benzina creativa: intervista ai Negrita
“Desert Yacht Club” è un album nato – come i Negrita ci hanno abituato da molti anni – dalla libertà del viaggio: il sud ovest degli Stati Uniti è stato lo scenario in cui questi undici nuovi brani sono venuti alla luce
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Magliocchetti
I Negrita sono arrivati al decimo album di inediti con poca nostalgia per il passato e tanta voglia di vivere il nostro tempo, con lo sguardo rivolto anche alle nuove generazioni. Desert Yacht Club è un disco nato – come la band aretina ci ha abituato da molti anni – dalla libertà del viaggio: il sud ovest degli Stati Uniti, California in primis, è stato lo scenario in cui questi undici nuovi brani sono venuti alla luce. Apre l’album un pezzo dal titolo significativo: Siamo Ancora Qua. Le band sono diventate quasi una rarità nelle classifiche ma i Negrita non hanno paura di fare quello che gli riesce meglio: la rock band in senso classico.
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Desert Yacht Club è il vostro album numero 10, il numero dei campioni… Cosa rappresenta per i Negrita questo traguardo?
[Pau] È un bel traguardo perché una band italiana che arriva al decimo album è tanta roba. È un album molto sentito, frutto di una crisi anche un po’ pesante. Quando vuoi rimetterti in carreggiata per affrontare un lavoro nuovo ti ci metti con tutto il corpo, la testa e la passione che possiedi. Per iniziare a lavorare su questo album – come è consuetudine per noi – abbiamo dovuto alzare i tacchi e andarcene. Un po’ per isolarci, ma per noi non è sufficiente l’isolamento dello studio di registrazione vicino a casa: dobbiamo proprio prendere le valigie, le chitarre e andare via.
E questo amore per Joshua Tree e la California?
[P] È stato un mezzo caso, perché dovevamo suonare a Londra, a Tokyo e a Hollywood (al Whiskey a Go-Go, tra l’altro una bella medaglia sul petto). Ne abbiamo approfittato per rimanere nel sud ovest degli USA. Ci siamo trattenuti quasi un mese fra Arizona, Nevada e California, fino al confine con il Messico ma con la classica attitudine da rock band: affitto di un furgone, un computer, due casse per lavorare.
[Drigo] E con strumenti come questo (prende una chitarra acustica, ndr), che sono piccoli, li tieni nel furgone, non hai paura che te li rubino.
Quindi alla fine è ciò che avevate in mente di fare.
[P] Sì, abbiamo fatto di necessità virtù e questa cosa alla fine ha determinato la cifra stilistica della composizione. Lì abbiamo creato questo approccio che abbiamo chiamato “Kitchen Groove”: ogni tavolo che avevamo a disposizione, possibilmente con annessa cucina, diventava il nostro studio. Mentre noi registravamo o ci facevamo venire idee magari Cesare, che è lo chef dei Negrita, spadellava delle cose.
Una traccia dell’album è Milano Stanotte e parla di questa città che “chiede il conto, sopravvivi se sei pronto o ti inghiotte”. È una città che apprezzate?
[P] Per noi la canzone è una dedica a Milano. Negli ultimi anni ci siamo sempre occupati di sud del mondo, dal Salento a Buenos Aires. Era come un debito da saldare: Milano, sin dal nostro primo disco nel 1994, ci ha sempre accolto a braccia aperte. Nella frase che hai citato c’è sicuramente del vero. Se vuoi vivere una certa Milano devi avere un po’ il pelo sullo stomaco e andarci pronto, “allenato”. Ma siamo contenti di aver detto finalmente: “Milano, grazie”.
La Rivoluzione È Avere 20 Anni è un brano in cui parlate di un giorno migliore ma anche del fatto che pur essendo connessi con tutti in realtà siamo clamorosamente soli.
[P] Ho scritto il testo perché volevo un contraltare a Non Torneranno Più, che parla della nostra generazione. Siccome siamo genitori, mi viene anche d’istinto il fatto di andare a proteggere il nostro operato. La Rivoluzione È Avere 20 Anni invece è una canzone rivolta alle generazioni che verranno. L’intento è stato descrivere il mondo come lo vediamo noi per consegnarlo alle generazioni future. I vent’anni sono la fase della vita in cui si sentono più forti certi problemi e in cui si hanno anche le energie per combatterli.
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Molti dicono che l’hip hop sia il nuovo rock. In Talking to You questi due linguaggi musicali si fondono perché avete collaborato con Ensi. Cosa vi piace – e cosa non vi piace – del rap italiano di oggi e dei suoi sottogeneri?
[P] Noi siamo molto curiosi per natura e abbiamo sempre fatto ascolti molto eterogenei, senza fossilizzarci su una cosa sola. Il rap non è nato ieri, forse adesso c’è il boom, ma ricordiamo che è nato alla fine degli anni ’70 a New York. Negli anni ’80 fra i primi dischi e cassette che avevamo fra le mani c’erano anche i Run DMC e i Public Enemy vicino ai Clash e ai Pink Floyd.
[Cesare] Noi veniamo dalla provincia e forse questa cosa ha dettato il nostro percorso musicale, non concentrandoci su un genere solo. Quello succede di più nelle metropoli.
Siete già in “mood” tour: avrete a disposizione spazi grandi come l’Unipol Arena, il Palalottomatica e il Forum. E invece per i piccoli locali dove nasce, fermenta e si sviluppa la musica avete in mente qualcosa?
[P] Sono situazioni diverse. Nei club non capisci chi sta suonando e chi sta ballando. C’è un interscambio di energia e di sudore che è costante. In un’arena o un palasport la scena è dominante e hai bisogno di altri spazi. Invece nel club ti ritrovi tutti lì sotto.
[D] È stata la nostra formazione. Ai tempi nostri non c’erano gli X Factor, quindi ci siamo formati locale per locale in giro per l’Italia. Questo ti insegna tante cose. Non so se avviene anche oggi di suonare in un locale piccolo e pensare, come facevamo noi: “Adesso voglio che il tizio laggiù si alzi e inizi a ballare sul tavolo”. Dentro un locale queste dinamiche le impari ed è stupendo.
Oggi le band sono quasi una rarità nelle classifiche. Voi invece avete sempre creato, progettato e raggiunto obiettivi in quanto gruppo di musicisti e amici. Qual è secondo voi la marcia in più che vi dà la dimensione della band rispetto a quella dell’artista solista?
[P] Noi non possiamo saperlo. Non siamo mai stati cantanti singoli. Abbiamo sempre avuto l’attitudine della rock band. Le band stanno scomparendo, è vero. Però prendiamo il rap: le crew stanno nascendo. Il rapper non è figlio solo di se stesso: ci sono dei collaboratori nella crew che fanno le basi, la grafica, i video. Sono piccoli centri di produzione autosufficienti. Hanno un’immagine internazionale sin da subito, cosa che per noi non era possibile. Noi per arrivare a fare qualcosa dovevamo superare 27mila step perché non avevamo quelle possibilità. Negli anni ’90 se non avevi lo studio cosa facevi?
[D] Secondo me il motivo per cui si vedono meno gruppi è che con un computer e un po’ di voglia di imparare puoi riuscire a mettere su un arrangiamento o una canzone anche a casa tua.
[C] E poi in una band il rapporto è complicato, lo devi coltivare!