Interviste

“Brightside”, la radiosa rinascita dei Lumineers: «Abbiamo seguito un approccio alla Kurt Cobain»

Venerdì 14 gennaio è uscito il nuovo album della band (dal vivo in Italia a febbraio): ce lo presenta il batterista e polistrumentista Jeremiah Fraites

Autore Federico Durante
  • Il16 Gennaio 2022
“Brightside”, la radiosa rinascita dei Lumineers: «Abbiamo seguito un approccio alla Kurt Cobain»

The Lumineers (fonte: ufficio stampa)

Dovendo giustamente recuperare un tour europeo rimandato a causa della pandemia (che farà tappa al Fabrique di Milano il 15 e 16 febbraio), i Lumineers tengono acceso l’entusiasmo dei fan con un nuovo album, Brightside, uscito venerdì 14 gennaio.

Rispetto alla solida impostazione da concept album del precedente III del 2019, qui la band di Wesley Schultz e Jeremiah Fraites opta per un approccio “a schema libero” e più compatto. Ma non lo si consideri un disco tappabuchi: Brightside suona fresco e vitale, ha il pregio di un’immediatezza espressiva che fa risplendere le loro già indubbie doti di songwriter e che li spinge a esplorare sonorità poco battute in passato. Ce lo ha presentato il batterista-polistrumentista Jeremiah in un’intervista che trovate integralmente sul numero di dicembre-gennaio di Billboard Italia.

Avete detto che il vostro precedente album era “emotivamente e stilisticamente” più cupo degli altri. Nel caso di Brightside, sin dal titolo e dalla copertina si può percepire un sentimento diverso.

III si basava molto su un filo narrativo, con personaggi specifici e tematiche spiacevoli come la dipendenza da droghe e alcol. Io ho contribuito a parte dei testi – in generale io e Wesley scriviamo le musiche insieme e lui si occupa delle liriche – e personalmente vado più a schema libero. III andava in modo preciso da un punto A a un punto B, mentre in questo caso c’è stato un approccio alla Kurt Cobain: il testo di un pezzo può anche non avere niente a che fare con il precedente.

Per esempio c’è una canzone intitolata Where We Are, con il ritornello che fa: “Where we are, I don’t know where we are, but it will be okay”. Sono parole che mi sono venute a partire dalla condizione di isolamento e di spaesamento mentale, ancor più che fisico. Probabilmente con questo titolo e questa copertina volevamo anche qualcosa di speranzoso a fronte di ciò che abbiamo attraversato negli ultimi due anni.

È un disco che suona molto essenziale e spontaneo, con una bella urgenza comunicativa. Il processo di scrittura e produzione è stato altrettanto veloce?

Sì, è stato scritto e registrato molto più velocemente degli altri nostri album. A breve mi sarei trasferito in Italia (a Torino, ndr), per cui quando vivevo ancora a Denver ci siamo immersi nella scrittura. Abbiamo trovato che la quasi totalità dei brani andasse già benissimo con solo chitarra e piano, che non bisognasse aggiungere molto in studio.

In passato, pezzi come Ho Hey o Ophelia venivano realizzati nell’arco di tre mesi, registrati già ottimamente come demo e poi rifatti di nuovo in studio. Una cosa fuori di testa, col senno di poi. Una volta scrivevo cose al piano sapendo che poi le avrei modificate, mentre adesso magari provavo idee mai sperimentate prima, dicendo: “Beh, suona bene. Lasciamola così”. Per cui facevo delle take senza neanche sapere che sarebbero state quelle definitive.

Mi sembra un album in cui esplorate le sonorità elettriche più apertamente: è evidente in pezzi come la title track e Never Really Mine. Qual era il sound complessivo che avevate in mente?

Nel tempo ci siamo evoluti pian piano, dal punto di vista sonoro. Ma non è che andiamo in studio dicendo: “Dobbiamo cambiare”. Succede naturalmente. Se ascolti il nostro primo album (The Lumineers, 2012, ndr) e Brightside, ti viene da chiederti se sia la stessa band. Ed è figo! Le mie band preferite sono così, per esempio i Radiohead.

La title track ha questo grosso suono di batteria ma è stata una cosa quasi casuale. Mi ero messo a suonare una mia idea sulla parte di chitarra di Wesley, senza metronomo e senza sapere che il fonico mi stesse registrando. Ho 35 anni ma a riascoltarmi mi sono sentito di nuovo diciassettenne.

Ci sono anche suoni elettronici sul disco. C’è un pezzo intitolato Mr. Remington che usa una drum machine. Sembra la versione dei Lumineers di In the Air Tonight di Phil Collins… (ride, ndr) Dopo una giornata molto lunga in studio, tornai in hotel, dove avevo una chitarra e un’app di drum machine sul telefono. Il giorno dopo feci sentire quell’idea grezza ai ragazzi, pensando che poi l’avremmo suonata con altri strumenti, ma a tutti piacque così com’era.

Parlando del video di Big Shot, Wesley ha detto che si ispirava ai videoclip anni ’90 di MTV. Dimmi di più su quei riferimenti.

Il direttore creativo dei nostri progetti, Nick Bell, viene dalla nostra stessa cittadina del New Jersey, Ramsey. L’ostinato di chitarra che ho scritto mi ricordava molto gli anni ’90, canzoni malinconiche dei Radiohead come Fake Plastic Trees e High and Dry. Ne ho parlato a Nick e lui diceva di essere andato in un 7-Eleven (una catena di minimarket economici che abbiamo qui in America) a Los Angeles, vedendo tutti questi personaggi particolari. Per cui gli è venuta quell’idea, una cosa molto semplice che cattura il brano in un bel modo.

Ascolta Brightside dei Lumineers

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