Rock

“Fever To Tell” compie 20 anni: cinque curiosità su il primo album degli Yeah Yeah Yeahs

Il 29 aprile 2003 usciva il disco d’esordio degli Yeah Yeah Yeahs, tra i protagonisti della scena rock newyorkese degli anni zero. Cinque cose che forse non conoscevate

Autore Billboard IT
  • Il2 Maggio 2023
“Fever To Tell” compie 20 anni: cinque curiosità su il primo album degli Yeah Yeah Yeahs

Yeah Yeah Yeahs (foto di David Black)

Emersi dalla scena rock newyorkese degli anni zero, splendidamente raccontata nel documentario Meet Me In The Bathroom (da un brano degli Strokes, che di quella scena sono stati alfieri), gli Yeah Yeah Yeahs sono una band caratterizzata principalmente dalla carismatica cantante di origini sudcoreane Karen O, affiancata dal batterista Brian Chase e dal chitarrista Nick Zinner. Rispetto alla concorrenza dell’epoca, il sound dei loro primi singoli era leggermente più “rumoroso” e “groovy”. Un mix che attingeva dalle fonti dance-punk delle ESG e dall’electroclash de Le Tigre, la band fondata dall’ex Riot grrrl delle Bikini Kill, Kathleen Hanna.

Grazie a delle esibizioni live incendiarie, caratterizzate dalle performance sempre più estreme della cantante, il trio ha beneficiato fin da subito di un hype spropositato da parte della stampa specializzata. Spin arrivò forse a coniare la definizione più intrigante con Iggy pop for shy nerds who want go get loose.  Per questa ragione, ancor prima di pubblicare un vero e proprio album il gruppo era già sulla bocca di tutti. E aveva persino ricevuto un invito ufficiale per suonare al Reading Festival del 2002. Invito poi declinato dalla band per non distogliere energie dall’incisione dell’album d’esordio, Fever To Tell, pubblicato ufficialmente il 29 aprile 2003.

Prodotto dall’amico Dave Sitek dei TV on the Radio e mixato da Alan Moulder (My Bloody Valentine, Nine Inch Nails, Smashing Pumpkins, U2), il disco è un concentrato sorprendente di art-punk elettrizzante e indie rock nostalgico. Un disco dalla doppia anima, non solo musicale. Come ha notato Sophie Kemp su NPR, la sua eredità non risiede tanto nei suoni revivalisti. Quanto nella capacità di coniugare l’esibizione sfacciata della sessualità con l’intimità e lo strazio di un cuore spezzato. Due facce di una stessa medaglia che spesso vengono tenute rigorosamente separate e che qui invece sono legate insieme.

Yeah Yeah Yeahs: cinque curiosità sul disco d’esordio

Ecco allora cinque curiosità sul primo eccitante e lancinante disco degli Yeah Yeah Yeahs.

1. L’esibizione della sessualità degli Yeah Yeah Yeahs

Uno dei primi elementi che colpisce l’ascoltatore è l’esibizione sfacciata della sessualità femminile. Karen O incarna alla perfezione il ruolo della provocatrice sessuale. Non solo per come si presenta sul palco – cosparsa di olio o con tutine attillate -. Ma anche e soprattutto grazie a un mix di testi espliciti e performance canore ai limiti dell’orgasmo.

Nella traccia d’apertura, ad esempio, si strappa la carne (flesh ripped off) e implora un ragazzo di “ficcarglielo dentro” (I wish you’d stick it to me). Mentre l’appuntamento con la notte – raccontato nel primo selvaggio singolo Date With The Nightè un po’ più criptico dal punto di vista testuale. Ma si conclude con un orgasmo finale inequivocabile. La tecnica viene riproposta anche in quasi tutte le altre canzoni che compongono la prima metà abbondante del disco. In particolare Man, Tick, Black Tongue e Cold Light  sono infarcite di allusioni, gridolini, urletti e veri e propri gemiti. Il tutto abbinato a un ritmo furente e serratissimo che sembra quasi la riproduzione musicale di una notte di sesso selvaggio.

2. Non c’è nessuna storia d’amore moderna, ma ci speriamo lo stesso

L’altro lato della medaglia è rappresentato da un cuore spezzato grondante di sangue che incontriamo soprattutto nella parte finale del disco. Dove il ritmo frenetico dei brani rallenta come i battiti di un cuore ferito. La canzone più famosa del gruppo – Maps – racconta il momento straziante in cui finisce una storia. Quando i “vattene via” e i “resta di prego” si confondono tra loro (Pack up / Don’t Stray – Fai le valigie / Non allontanarti) e il dolore è ancora vivo in quel “Wait, They don’t love you like I Love You” (Aspetta, loro non ti amano come ti amo io) che ha fatto scuola. Mandando in frantumi non solo il cuore di chi canta, ma anche quello di tutti gli altri in ascolto.

In Modern Romance il suono non solo rallenta, ma si fa più pulito. Non c’è più nulla di sferragliante e non c’è più nessuna storia d’amore moderna. Perché l’amore moderno non esiste, non c’è, non dura (Time is gone / It never lasts / There is no/ There is no modern romance). Siamo ad anni luce dall’amore moderno cantato dai Bloc Party oppure da quello di David Bowie che verrà trasfigurato nel cinema di Carax e Baumbach sotto forma di una folle corsa.

Qua siamo fermi. Non c’è più nulla da fare. Se non tornare a sperare con una nuova (povera) canzone fantasma – Poor Song – che è quella con cui si chiude l’album- Perché “Baby, ho paura di molte cose, ma non ho paura d’amarti” dice all’inizio. Concludendo con “e forse sono solo una sciocca” (Well I may be just a fool / “Ma so che tu sei altrettanto cool” (But I know you’re just as cool) / “E i ragazzi cool si appartengono l’un l’altro” (And cool kids, they belong together).

3. Il video censurato di “Y Control” degli Yeah Yeah Yeahs

Dopo che il video strappalacrime di Maps aveva aperto loro le porte di Mtv, la band decise di dare in pasto al pubblico generalista qualcosa di meno canonico e più “sporco”. Che fosse in qualche modo più rappresentativo della loro vera essenza. Così per il singolo successivo – Y Control – le riprese del video furono affidate al regista visionario Spike Jonze (Her, Essere John Malkovic), che forse si fece prendere un po’ la mano.

Il videoclip è una sorta di incubo lychiano in cui vediamo bambini e bambine armati di accette e mazze da baseball che spaccano tutto. Mostrano il dito medio, traportano carcasse di cani morti e fanno tutta un’altra lunga serie di cose inquietanti. Come tagliarsi le mani a vicenda o sventrarsi l’addome per tirare fuori l’intestino. Pur nel suo tentativo di essere umoristico ne venne fuori un’opera particolarmente inquietante per gli standard di MTV. Che si trovò costretta a sfocare le immagini ritenute più “offensive” per la trasmissione e ad aggiungere un disclaimer da parte del regista. Insomma, gli Yeah Yeah Yeahs avrebbero potuto spiccare il volo, ma decisero di fare harakiri e di auto-sabotarsi. Tutto, pur di restare fedeli alla loro inclinazione estetica.

4. Campionamenti e campionamenti, di che ti lamenti?

Lungi dall’esaurirsi nel tempo, il successo di Maps si è conservato intatto fino ai giorni nostri, arrivando anche a ispirare alcune grandi canzoni pop degli anni 2000. Dai Black Eyed Pease a Kelly Clarkson fino alla diva delle dive Beyoncé. Per quanto riguarda i primi, un campionamento della chitarra di Maps è contenuto nel loro brano del 2009 Meet Me Halfway, ma è così ben nascosto da essere irriconoscibile. Nel caso di Kelly Clarkson, invece, non si tratta di un campionamento vero e proprio. Ma i suoi due autori – il guru del pop Max Martin e Dr. Luke –  hanno dichiarato di essersi palesemente ispirati a Maps nella scrittura del singolo Since U Been Gone. In cui hanno mantenuto una struttura simile e aggiunto quello che secondo loro mancava, ovvero un ritornello pop fatto come si deve! 

Infine, nel brano di Beyoncé del 2017Hold Up – contenuto sull’album Lemonade, viene esplicitamente citata la traccia vocale del ritornello di Maps. A questo proposito Ezra Koenig dei Vampire Weekend – uno dei sette autori accreditati sul brano – ha ammesso di aver scritto l’aggancio “they don’t love you like I love you” per Hold Up. Basandosi su un’interpolazione di Maps e assicurandosi di accreditare correttamente gli autori.

Non sappiamo esattamente quanto tutti questi riconoscimenti pop abbiamo fatto piacere alla band. Ma di certo sappiamo che quello meno gradito da O è stato l’ascolto del brano di Clarkson. A proposito di questo, aveva dichiarato: «è stato come essere morsi da un animale velenoso».

5. La vera storia di “Maps”

Veniamo infine all’elefante nella stanza, la canzone più citata all’interno di questo articolo, che è anche il maggior successo commerciale della band: Maps.Per alcuni si tratterebbe addirittura dell’unico momento sincero di un gruppo costruito interamente a tavolino. Quello che sappiamo per certo è che il brano è ispirato alla rottura della relazione tra Karen O e il cantante dei Liars Angus Andrew.

In particolare la frase più iconica del brano – ‘They don’t love you like I love you’ – viene direttamente da una lettera d’amore che Karen O aveva scritto per lui. I due avevano preso a frequentarsi proprio durante l’esplosione della cosiddetta “New Rock Revolution”. Ma i continui impegni in tour delle rispettive band avevano reso le cose più complicate. «Avevamo iniziato da poco a fare molti tour. C’era una forte agitazione emotiva in atto. Lo sporco si stava alzando e l’acqua cominciava a diventare sempre più torbida. Mi ero appena innamorata di qualcuno con cui ero andata a vivere, ma andavo e venivo continuamente. Tutto ciò ha dato vita a una canzone dal cuore sanguinante».

L’intento della lettera di Karen era quello di ricordare a Andrew che nessuna delle persone che lo circondava durante la tourné lo amava quanto lei. Ma non è servito. L’unica cosa che ha ottenuto è stata una canzone dei Liars –The Other Side of Mt. Heart attack – che molti considerano una risposta a Maps. Anche se la cosa non è mai stata confermata. Anche sul titolo del brano sono state elaborate varie teorie. Secondo alcuni sarebbe un riferimento alle mappe dei tour che li hanno tenuti a distanza, mentre per altri si tratterebbe di un acronimo per “My Angus Please Stay” (MAPS).

Sia come sia, tutto il dolore della rottura è confluito nel brano. Tanto da far scendere le lacrime sul volto di O durante le riprese del video ufficiale, proprio mentre pronuncia la fatidica frase. «Erano lacrime vere» ha precisato la cantante. «Il mio fidanzato di allora doveva venire alle riprese, ma era in ritardo di tre ore e io stavo per partire per il tour».

In conclusione, a 20 anni di distanza Fever To Tell è ancora un disco che vibra di un’intensità rara, perché – per citare nuovamente Sophie Kemp«mostra come sia il sesso che l’amore siano legati alla vulnerabilità, e come esercitare potere ed energia e sperimentare il crepacuore non si escludano a vicenda».

Articolo di Andrea Pazienza

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