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Il luccichio di un “diamante folle” tra le “loro spoglie mortali”: i Pink Floyd in mostra

È stata inaugurata il 19 gennaio al MACRO di Roma, dove rimarrà allestita sino al primo luglio, “The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains”: mostra concepita da Storm Thorgerson, autore di quasi tutte le copertine dei dischi della band scomparso nel 2013 e portata a compimento dal suo socio Aubrey “Po” Powell

Autore Alberto Campo
  • Il25 Febbraio 2018
Il luccichio di un “diamante folle” tra le “loro spoglie mortali”: i Pink Floyd in mostra

Pink Floyd. Vic Singh 1967

È stata inaugurata il 19 gennaio al MACRO di Roma, dove rimarrà allestita sino al primo luglio, The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains: mostra che lo scorso anno ha totalizzato circa 400mila visitatori al Victoria and Albert Museum di Londra. Concepita da Storm Thorgerson dello studio Hipgnosis, autore di quasi tutte le copertine dei dischi della band (da A Saucerful of Secrets a The Division Bell), scomparso nel 2013 e portata a compimento dal suo socio Aubrey “Po” Powell, l’installazione è impreziosita da un’infinità di rare memorabilia.

Essendo la sequenza cronologica, fra i primi reperti esposti c’è la copia originale di un contratto con la BBC relativo a un’apparizione del gruppo nel programma radiofonico Top Gear, condotto da John Peel: il nome Syd Barrett è sbarrato a penna e accanto, scritto a mano, compare quello di David Gilmour. Era una presa d’atto dell’estromissione del primo, formalizzata il 6 aprile 1968.

Pink Floyd ai Kew Gardens, Londra, 1969 – foto di Storm Thorgerson © Pink Floyd Music Ltd.

A malincuore, i Pink Floyd decisero di escludere Barrett a causa della crescente inaffidabilità, effetto collaterale di una psicosi alimentata dall’abuso di Lsd, che aveva cominciato ad assumere nell’estate del 1965, minando un equilibrio mentale già instabile (per qualcuno soffriva di schizofrenia, mentre la sorella Rosemary sostiene fosse affetto dalla sindrome di Asperger). Nella sua “storia personale dei Pink Floyd” Inside Out, edita nel 2004, riferendosi a quegli avvenimenti, Nick Mason lo definisce “completamente distaccato da tutto quel che accadeva”.

Nel 1967 ciò provocò la cancellazione di alcuni show in patria, tra cui un’esibizione al prestigioso “National Jazz and Blues Festival”, e qualche apparizione oltreoceano. Rimpiazzato inizialmente sul palco da David O’List (ad esempio nel tour britannico di spalla agli Experience di Jimi Hendrix), venne affiancato in seguito da David Gilmour, suo ex compagno di scuola a Cambridge: scelta annunciata ufficialmente nel gennaio 1968. Esiste una fotografia di quei giorni che documenta il provvisorio allargamento della formazione a cinque elementi: Barrett è il secondo da sinistra, lo sguardo rivolto verso il cielo, ancora fotogenico e carismatico.

Fino ad allora era stato fulcro della band, del resto: sua la paternità del nome, in onore dei bluesman Pink Anderson e Floyd Council, così come la firma dominante sul repertorio degli esordi, dai 45 giri Arnold Layne e See Emily Play (al sesto posto nell’hit parade nazionale a giugno, portando il quartetto alla ribalta televisiva di Top of the Pops) a larghissima parte dell’album The Piper at the Gates of Dawn. Nel successivo A Saucerful of Secrets, viceversa, è autore solo del brano conclusivo: Jugband Blues.

Un sogno in technicolor

Amico d’infanzia di Roger Waters, Barrett era entrato nel gruppo quando ancora si faceva chiamare Tea Set, dopo essere stato in origine Sigma 6: divenne Pink Floyd Sound alla fine del 1965 e dalla primavera seguente solo Pink Floyd. Stava per fiorire l’epopea psichedelica all’UFO Club di Tottenham Court Road, che i quattro tennero a battesimo – insieme ai Soft Machine, con i film di Andy Warhol e Kenneth Anger di contorno – il 23 dicembre 1966. Furono protagonisti poi all’apogeo della controcultura londinese: l’happening 14 Hour Technicolor Dream in scena il 29 aprile 1967 all’Alexandra Palace, che precedette di un paio di settimane il loro show alla Queen Elizabeth Hall Games for May, ossia il debutto della quadrifonia nella storia della musica dal vivo. E intanto, negli studi EMI di Abbey Road, prendeva forma The Piper at the Gates of Dawn.

A quella fase iniziale della carriera è dedicato il primo dei sette volumi tematici inclusi in The Early Years 1965-1972, imponente cofanetto pubblicato nel novembre 2016. La figura di Barrett svetta nella sezione Cambridge St/ation, focalizzata sul triennio 1965/1967 (fra le tante cose, spicca la versione ufficiale della leggendaria Vegetable Man, canzone rimasta confinata fin lì nel circuito semiclandestino dei bootleg), laddove Germin/ation, che riguarda le produzioni del 1968, testimonia l’ingresso in formazione di Gilmour e lo spostamento dei maggiori oneri creativi sulle spalle di Waters.

Fra i primissimi concerti del post Syd vanno segnalati quelli al Piper di Roma, il 18 e il 19 aprile di quell’anno (due al giorno, di pomeriggio e la sera), rievocati nell’aprile 2016 da un post sulla pagina Facebook dei Pink Floyd con tanto di foto d’epoca e relativo commento: “Un locale insolito, situato dentro una grotta, cui si accedeva percorrendo una lunga scalinata”. Il quartetto tornò nella capitale il 6 maggio per esibirsi al Palasport nel corso della terza giornata dell’International Pop Festival.

Pink Floyd, 1971 © Pink Floyd Archive

Il lato oscuro del successo

Dal canto suo, l’escluso riuscì a confezionare due dischi da solista, The Madcap Laughs e Barrett, datati entrambi 1970 (dagli scarti di lavorazione venne ricavato inoltre nel 1988 Opel), sempre con il contributo fattivo degli ex soci, Gilmour in particolare. Frattanto i Pink Floyd avevano cominciato a cambiare pelle. All’inizio dello stesso anno era uscito nelle sale cinematografiche statunitensi Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, che aveva affidato loro una parte sostanziale della colonna sonora, e a ottobre arrivò Atom Heart Mother, album la cui suite omonima era stata registrata con l’ausilio di un’orchestra: avvisaglia dell’incipiente svolta progressive che avrebbe interessato la scena musicale britannica.

Tre anni ancora e sarebbe scoccata l’ora di The Dark Side of the Moon, destinato a diventare uno dei maggiori best seller discografici di ogni epoca. “Un capolavoro del kitsch”, sentenziò a caldo l’influente critico Robert Christgau sul Village Voice.

“È stato il principio della fine”, dichiarò in un’intervista Waters, poco prima di abbandonare il gruppo nel 1985. Qualcosa si era incrinato e ciò rese travagliata la gestazione del seguente Wish You Were Here, su cui aleggia l’ombra di Barrett: è lui il crazy diamond al quale allude (già nelle iniziali delle parole chiave del titolo: Shine, You e Diamond) la suite che apre e chiude l’opera. Il testo recita: “Ricorda quando eri giovane, risplendevi come il sole. Ora nei tuoi occhi c’è uno sguardo come buchi neri nel cielo”. E più avanti: “Nessuno sa dove sei, quanto vicino o quanto distante”.

Un fantasma triste

Era lì, invece: la sua apparizione in studio del 5 giugno 1975, proprio durante il mixaggio di Shine On You, ha del soprannaturale. Ingrassato e con il capo rasato, al punto da risultare pressoché irriconoscibile (lo dimostra la foto pubblicata nella citata biografia di Mason), sconvolse i vecchi partner, tanto da ridurre in lacrime Roger Waters. Anni dopo, quest’ultimo dichiarò: «Ovviamente Syd è stato importante e la band nemmeno avrebbe cominciato senza di lui, visto che scriveva tutto il materiale, ma d’altra parte con lui non avrebbe potuto proseguire».

Un ricorrente luogo comune tende ad attribuire a Barrett una sorta di “purezza” artistica, contrapponendola al cinismo commerciale dei suoi ex compagni d’avventura. Waters all’epoca replicava: «Abbiamo molto successo e questo ci rende vulnerabili agli attacchi, e Syd è l’arma che viene usata contro di noi. Raccontare la storia in modo piccante aiuta a vendere i giornali su cui scrive chi afferma queste cose, ma è una banalità che non si basa su fatti concreti: è solo un sentito dire».

Barrett sarebbe stato davvero allergico alla grandeur della quale i Pink Floyd a lungo andare sono diventati ostaggi? Intervistato nell’autunno del 1967 da Melody Maker, sosteneva: «La nostra sensazione è che in futuro i gruppi dovranno offrire molto più di un semplice concerto pop: dovrà essere una specie di spettacolo teatrale». E così è stato.

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