Interviste

Stand up for your rights! Intervista a Junior Marvin, chitarra degli Wailers

L’onda lunga del reggae vista da un maestro: Junior Marvin, chitarrista storico degli Wailers di Bob Marley, racconta l’essenza di un genere che ha abbattuto barriere sociali e razziali. E ricorda benissimo il leggendario live del 1980 a San Siro

Autore Federico Durante
  • Il10 Novembre 2018
Stand up for your rights! Intervista a Junior Marvin, chitarra degli Wailers

Junior Marvin - Wailers - CC BY 2.0 dcsplicer

Il 27 giugno 1980 è una data fondamentale per la storia della musica dal vivo nel nostro paese. In una Milano ancora immersa nel clima della contestazione e della controcultura arriva l’artista che è stato innalzato a simbolo della resistenza degli sfruttati di tutto il mondo: Bob Marley si esibisce con i suoi Wailers a San Siro davanti a un pubblico oceanico stimato in 100mila persone. Il giorno successivo è a Torino e poi in Italia non ci tornerà più: il cancro se lo porterà via neanche un anno dopo. Ma il reggae è stato una musica capace di travalicare i confini nazionali, etnici, sociali, proiettando la sua influenza e il suo messaggio di pace e giustizia su scala planetaria per decenni. Ne è consapevole Junior Marvin, che quella storia l’ha fatta: chitarrista degli Wailers dal ’77 in poi (e fresco di album realizzato con Alborosie), ricorda tutto con grande amore e senza facili nostalgie.

Quando Bob Marley suonò per la prima volta in Italia una folla di 100mila persone venne al concerto di Milano. Cosa ti ricordi di quel live?

Mi ricordo che il promoter (Franco Mamone, ndr) scappò a casa per nascondersi! Lo ricorderò per molto tempo. Non poteva crederci: si aspettava probabilmente qualcosa come 15mila persone ma la gente continuava ad arrivare allo stadio. Così è scomparso… (ride, ndr) Ma fu una bella esperienza. Aprì il concerto una band scozzese (la Average White Band, ndr) e passò un momento difficile perché la gente continuava a reclamare Bob Marley. Comunque fu un grande concerto. Per noi non importava che fossero 100 persone o 100mila: avremmo suonato nello stesso modo. Ma eravamo molto entusiasti e siamo stati fortunati a fare un simile evento storico.

Vi aspettavate una reazione così imponente in un paese che, perlomeno all’epoca, non aveva quel tipo di tradizione musicale?

No, ma il reggae stava crescendo molto rapidamente in Europa a quel tempo. L’album Exodus e anche quello precedente vendettero molto bene, così ci aspettavamo un buon riscontro ma ovviamente non così tante persone. Siamo stati fortunati e abbiamo voluto fare del nostro meglio condividendo la musica con tutte quelle persone che erano venute per supportarci.

Quest’anno cade il 50esimo anniversario della nascita di un’importante etichetta di musica giamaicana, la Trojan Records. Secondo te come è successo che il reggae sia diventato rapidamente un fenomeno così grosso in Europa e in tutto il mondo?

Credo che sia stato a causa di alcune canzoni davvero classiche che sono state molto coraggiose nel loro approccio al grande mercato dell’industria musicale. C’era Chris Blackwell (fondatore della Island Records, ndr) che aveva molta esperienza, aveva la sua etichetta discografica e il suo studio di registrazione e poteva facilitare gli artisti nella registrazione. Aveva anche un ottimo team promozionale che era abituato al mondo rock. Così si creavano album con una buona promozione e con belle copertine: ti bastava guardarli per volerli comprare! Penso che l’approccio fosse nuovo, la promozione era molto buona, la musica era ottima e tutto ha funzionato nel modo giusto. Eravamo molto felici di essere parte di quel movimento.

L’Italia ha sempre dimostrato grande simpatia per questo genere e oggi diversi artisti reggae internazionali sono italiani. Ma qual è la differenza fra un reggae “genuino” e le imitazioni?

Non le chiamerei imitazioni. Il reggae è reggae. Ce n’è di ogni parte del mondo: Giappone, Sud America, Nord America, Europa. Questi ragazzi sono cresciuti con la loro storia e cultura – d’altra parte quello della Giamaica è un popolo nato da diversi popoli. Da molte persone diverse abbiamo creato “one love, one music”. Abbiamo sempre visto come un plus il fatto che le persone facessero la loro versione del reggae e lo supportassero, rendendolo internazionale e facendo sentire la gente parte di esso. La musica è un linguaggio universale. In Giamaica ovviamente troviamo la nostra cultura, che è una cultura meticcia: ci sono cinesi, indiani, africani… È un mix di persone e diversi stili di vita e questo si riflette nella musica. Ci sono anche artisti country che hanno fatto pezzi reggae, per esempio Kenny Chesney in Everybody Wants to Go to Heaven.

Pensi che Londra sia ancora la capitale europea del reggae?

Penso proprio di sì perché come giamaicani siamo parte del Commonwealth britannico ed è molto facile trasferirsi nel Regno Unito per lavoro o per studio. Abbiamo sempre guardato alla Gran Bretagna e all’Inghilterra come il nostro “stato madre”. Così molti giamaicani dopo la guerra, ma anche prima, si sono trasferiti lì. Così c’era una comunità locale che supportava la musica. I giamaicani portano con sé sempre il cibo e la musica: la musica è parte del cibo. La gente era stupita dalla potenza dei bassi che uscivano dai nostri sound system. Facciamo festa tutte le settimane e ai giovani britannici tutto ciò piaceva. Abbiamo avuto grandi hit nel Regno Unito con artisti come Millie Small, con la sua My Boy Lollipop, Ken Boothe, Junior Murvin (ha un nome simile al mio) con Police and Thieves, Toots & The Maytals con Reggae Got Soul, poi ovviamente Bob Marley. È una scena cresciuta con i giovani inglesi e i giovani inglesi sono cresciuti con essa. Il movimento punk con gruppi come i Clash assimilò il reggae. Gli ex Beatles come Paul McCartney e George Harrison lo supportarono e così è diventato sempre più grande fino ad essere parte integrante della scena musicale britannica a partire dagli anni ’60 e ’70. Band come gli Skatalites andavano forte lì e supportavano molti artisti giamaicani. È una scena andata avanti per molto tempo e sta ancora andando forte.

A proposito dei Clash, cosa pensaste allora riguardo al revival reggae fatto da certo punk britannico?

Ci supportavano: loro non vedevano differenze nel colore della pelle delle persone e protestavano per far sì che i giovani venissero ascoltati. Ovviamente i giovani vogliono sempre suonare e creare qualcosa di diverso dai loro genitori. Non era rimasto molto da fare, così arrivò il punk come alternativa per ribellarsi. Parte di esso era pericolosa ma un’altra parte era molto armonica. Puoi essere punk ma non per questo pericoloso: puoi essere amichevole e punk al tempo stesso.

Quando avete iniziato a fare musica il mondo era un posto diverso. Qual è il significato politico e sociale del reggae nel 2018?

Il mondo è lo stesso: le persone sono diverse. Purtroppo siamo ancora a un passo dalla guerra: questo è il problema principale, per cui dobbiamo mantenere un equilibrio di pace, amore e unità. Come dice Aston Jr. (attuale batterista degli Wailers e figlio dello storico bassista Aston “Family Man” Barrett, ndr), se manteniamo la pace e amiamo l’unità i giovani seguiranno le nostre orme. Noi cerchiamo di farlo con la musica come “neutralizzatore”.

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