Rock

“Gigaton” dei Pearl Jam è finalmente uscito

Oggi, venerdì 27 marzo, arriva il nuovo album dei Pearl Jam a sette anni di distanza dal precedente lavoro. Un rebus per decifrare presente e futuro

Autore Federico Durante
  • Il27 Marzo 2020
“Gigaton” dei Pearl Jam è finalmente uscito

Sette anni. Tanta è la distanza temporale del precedente lavoro in studio dei Pearl Jam (Lightning Bolt del 2013) dal nuovo album Gigaton, in uscita venerdì 27 marzo per Republic Records / Universal Music. Un lustro e mezzo in cui il gruppo capitanato da Eddie Vedder non è rimasto certo immobile. Per esempio la massiccia attività dal vivo ha consolidato la loro reputazione come una delle migliori live band del pianeta.

Ma da allora il mondo è cambiato. C’è stata l’elezione di Donald Trump, il movimento #metoo, la crisi climatica è tornata a preoccupare seriamente la comunità scientifica. L’inedita situazione di lockdown globale che il mondo sta vivendo in queste settimane è un altro tassello di una prospettiva “apocalittica” che uno spirito sensibile come quello di Vedder riesce a interpretare con esemplare spontaneità. “When the past is the present and the future’s no more”: parole che risuonano come un cupo ammonimento al tramonto del sol dell’avvenire.

Il “rebus” Gigaton

Gigaton è un rebus per decifrare presente e futuro del “mondo offeso”, per dirla con Elio Vittorini. Si tratta di un disco che accoglie e sintetizza le differenze. Per diversi aspetti.

I primi due terzi della tracklist di dodici pezzi (fino a Take the Long Way, ottava traccia) sono prettamente elettrici, arrabbiati, rock. Poi all’improvviso si fa tutto marcatamente acustico, fino alla fine dell’album. Infatti gli ultimi quattro brani (Buckle Up, Comes Then Goes, Retrograde, River Cross) fanno eco a tanta parte delle cose soliste di Vedder, o a quel filone di pezzi come Just Breathe (da Backspacer del 2009). Da un lato ci sono tanti assoli del Mike McReady “vecchia maniera” (Superblood Wolfmoon, Quick Escape, Never Destination) ma anche un gusto tutto folk (e molto americano) per la schitarrata acustica, per un arrangiamento “soulful” e minimale di chitarra e voce. Una filiazione diretta del blues primitivo: si avverte soprattutto in Comes and Goes.

Infine, i temi “apocalittici” sul presente, la denuncia delle storture dei tempi in cui viviamo, si legano a una voglia sottotraccia di disimpegno, di potente escapismo. Che è proprio quello che la buona musica è capace di offrire.

Ma non solo. Il lead single Dance of the Clairvoyants è una falsa pista: il brano rappresenta un unicum a livello di scrittura e produzione. Non ci sono altri pezzi del genere nel disco (peccato, perché è il solo momento di spinta verso nuove soluzioni di arrangiamento, peraltro molto ben riuscite). La circostanza è stata subito confermata dal secondo singolo Superblood Wolfmoon, di carattere completamente diverso.



Una sintesi di stili elettrici

Uno dei lati più apprezzabili di Gigaton è che ogni membro della band dà un assaggio del meglio di sé. Ciò avviene a livello sia di scrittura (si ascoltino Take the Long Way, firmata dal batterista Matt Cameron; Buckle Up, scritta da Stone Gossard; Quick Escape, marcata Jeff Ament) che di performance (come appunto gli assoli di McReady che ci riportano dritti alla grandeur rock dell’epoca di Ten).

Dopo l’opening track Who Ever Said, che dà il via con la giusta dose di elettricità e un accesso di furia rock fra The Who e U2, si passa subito a uno dei singoli, Superblood Wolfmoon. Qui sentiamo i Pearl Jam nella loro versione anni Duemila dominante, quella “alt-rock”. Una modalità alla The Fixer, per intenderci, ma che risale indietro fino a Hail, Hail di No Code. Il piglio è andante, l’approccio è volutamente grezzo, le chitarre crunchy: c’è l’urgenza di buttare fuori il pezzo con la giusta immediatezza.

Segue uno dei capitoli più notevoli dell’album (a parte il titolo un po’ naif), il primo singolo Dance of the Clairvoyants appunto. Corposo, inquietante, con un sound solidissimo in cui tutto si tiene insieme strettamente. E una parte di chitarra ritmica memorabile, che ricorda piacevolmente il John Frusciante dell’epoca di Stadium Arcadium o anche i Talking Heads di Remain in Light. La coda di due minuti, con Vedder che sovraincide se stesso, è una delle cose rock più belle e avvolgenti che abbiamo sentito negli ultimi anni. Molto interessante anche per l’approccio, perché i ragazzi si sono scambiati gli strumenti: Gossard suona il basso, Ament la chitarra.

Con Quick Escape è il momento delle reminiscenze grunge. Questo pezzo sembra una via di mezzo fra gli Stone Temple Pilots (basso dal suono grosso e dall’incedere ipnotico) e i Soundgarden, per i vocalizzi di Vedder che ricordano molto lo stile di Cornell e per l’assolo di chitarra super-effettato a metà brano. Verso il finale, nella coda, si recupera uno stile rock “da stadio” alla Alive. Fa da contrappunto al brano la successiva Alright: giusta modulazione dinamica “verso il basso” dopo un pezzo intenso come il precedente.

Seven O’Clock è vagamente springsteeniana nell’arrangiamento e nel portamento della voce. Un pezzo in linea con i Pearl Jam anni Duemila nella loro versione soft rock, post-Yield. Dopo Never Destination – brano forse secondario nell’economia dell’album, con un approccio analogo a quello di Superblood Wolfmoon – ascoltiamo l’ultimo momento “elettrico” di Gigaton, Take the Long Way. Assai interessante è la soluzione di tempo in 7/4 sulla strofa. La circostanza non è inusuale per la band: spesso i brani hanno tempi dispari quando sono scritti da Cameron.

La dimensione acustica

Alla nona traccia di Gigaton, i Pearl Jam disfano tutto e ripiegano su una dimensione schiettamente acustica, o comunque dalla dinamica molto più bassa. È il tono che accompagnerà l’album fino alla sua conclusione.

Il primo brano di questa ideale “seconda parte” è Buckle Up. Il pezzo, scritto da Stone Gossard, mostra un andante tempo in 12/8 e un brillante accompagnamento di chitarra. Comes Then Goes si basa tutta su un carnoso arrangiamento chitarra-voce. E la successiva Retrograde è un buon esempio di fusione organica fra fondamenta acustiche e sovrastruttura elettrica con la band al completo.

Si chiude con River Cross, una sorta di rock anthem in versione “stripped”. L’armonia, la melodia e le parti di batteria giocate sui tamburi lasciano immaginare un sound che, volendo, potrebbe essere monumentale (prendiamo per esempio la coda di Atmosphere dei Joy Division). Ma l’esplosione non avviene e tutto rimane così com’è, ridotto all’osso. Un ennesimo enigma.

In conclusione, con Gigaton i Pearl Jam hanno rialzato il tiro dopo i dubbi sull’output artistico suscitati dai precedenti due album. Non lo inseriremmo in un’ideale top 5 di dischi della band, ma è un lavoro che si erge al di sopra della media del materiale edito dal 2000 in poi. Un lavoro che sintetizza in maniera convincente le tante direzioni musicali seguite in quasi trent’anni di discografia, ma anche con uno sguardo verso il nuovo. I Pearl Jam hanno fatto pace con le loro diverse anime, e si sente.

Ascolta Gigaton dei Pearl Jam in streaming

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