“Steve McQueen” dei Prefab Sprout compie 35 anni
Questo disco dei Prefab Sprout è uno dei gioielli del pop anglosassone di una band che fu molto amata anche in Italia. Ripercorriamone la genesi
Vista dall’alto, anche solo giocando con Google Maps, la zona di Durham e della vicina città di Sunderland, mostra un ordine planimetrico preciso e si notano anche ampie zone di verde. Questa era un’area dell’Inghilterra dove si trovava la ricchezza: era sotterranea, tra i filoni di carbone, e per “soddisfare” la working class composta per l’appunto di migliaia di minatori il governo centrale approvò la costruzione di dignitose abitazioni per ogni famiglia. Tutte uguali con micro giardino e posto auto. Vennero definite (forse un poco ipocritamente) Sunderland Cottage. In un contesto urbano come questo, per niente ricco di variazioni, e men che meno di storia architettonica/artistica, se non per qualche ricordo della gloria e dell’epoca vittoriana visibile negli imponenti palazzi del centro di Sunderland, crescono le famiglie dei futuri Prefab Sprout.
Ma come spesso accade nell’arte, qualunque declinazione prendiate in considerazione, è proprio dalla normalità che nascono le grandi eccellenze. I progetti artistici più coraggiosi. E così inserendoci in un contesto della musica pop, ecco il “caso Prefab Sprout”. Una band capace di scrivere canzoni pop sofisticate ma apprezzabili da chiunque e con testi ricchi di un linguaggio ardito al limite del colto.
A sentire Steve McQueen sul piatto, e prestando attenzione a ciò che canta Paddy McAloon, uno potrebbe pensare che quella band arrivi da un college di Oxford o da Londra. E invece il punto di inizio di tutto fu una pompa di benzina, nella contea di Witton Gilbert, a pochi chilometri da Durham e non distante dalla più grande Sunderland.
Da adolescenti i fratelli McAloon, Paddy e Martin si nutrivano di Bowie e favoleggiavano sui musical di Broadway. Rimanevano estasiati dalle melodie di Stevie Wonder e Marvin Gaye, si concentravano sull’ascolto delle opere musicali di Stravinsky. I due suonavano tra pile di pneumatici usati e l’odore irresistibile della benzina. Un’alchimia che rese irresistibilmente affascinante il sound che produssero i Prefab per almeno quei cinque album che segnarono tra il 1984 e il 1990 la sezione aurea della loro discografia (peraltro tutti rimasterizzati e ripubblicati in vinile dalla Sony, eccetto il sottovalutato Protest Songs).
Per la cronaca, la stazione di rifornimento venne abbandonata dalla famiglia McAloon per i problemi di salute del papà ma proprio in quell’anno prendeva vita uno dei più bei dischi pop degli anni ’80: Steve McQueen. Uscito il 22 giugno 1985. Esattamente 35 anni fa.
La grande attesa e un produttore nerd
Il secondo album in studio dei Prefab Sprout era molto atteso tra i critici dell’epoca. L’NME e anche la stampa europea era rimasta deliziata e per certi versi folgorata dal loro album di debutto Swoon, un ardito esercizio di pop obliquo e molto arty, ricco di testi talvolta criptici e spesso ironici.
Il cantante sembra chiedere al suo ascoltatore quale sia stata l’ultima volta che ha giocato a baseball oppure lo invita a fantasticare sulla vita di un giocatore professionista di scacchi. E infine gli chiede un po’ di chiarezza sulla parola “crudeltà”. Il meglio doveva arrivare, ma ci sarebbe voluto un tocco produttivo “accattivante” per fare il salto anche nelle classifiche. Pur rimanendo “particolari”.
Il personaggio giusto era Thomas Dolby, un eccentrico nerd di Londra, amante dell’estetica sci-fi e dei primi computer. Nel 1982 aveva fatto uscire un album, The Golden Age Of Wireless (Capitol) che era un interessante ponte tra il synthpop fatto in casa (Europa And The Pirate Twins e She Blinded Me With Science) e l’energia commerciale del power pop (con la notevole Radio Silence). Per convincerlo a venire dai bizzarri e “provinciali” Prefab Sprout, ci pensò una corte spietata di Martin McAloon. Convinse Dolby a venire a trovarli addirittura a casa loro e così accadde.
Seduto nella cameretta di Paddy, Thomas Dolby ascoltò le canzoni nuove dei Prefab suonate sulla chitarra acustica. Era esattamente quella spagnola, regalata in adolescenza dalla mamma a Paddy per far pratica. Il compositore nerd rimase impressionato dalla bellezza delle armonie, così cristalline e malinconiche. Ma pure di un cestino posto ai piedi del letto che rigurgitava una pila di fogli disordinati con appuntati un centinaio di testi di future canzoni.
Dolby pensò di aver trovato il Sacro Graal del pop intelligente. Subito chiese alla band di ritrovarsi al più presto in studio per dare vita alle intuizioni di arrangiamento che già balenavano nella mente del producer londinese. Il ritorno in treno nella capitale, con due cassette e ben quaranta canzoni della band da ascoltare sul Walkman, fu piacevole per Dolby.
L’album e la magnifica versione solo acustica
Ne vennero scelte dodici, alla fine, di quelle quaranta. Le registrazioni iniziarono nell’autunno del 1984 nel Nomis Studios di Londra e il working title dell’album era June Parade. Thomas Dolby amava quelle melodie sentite in quella cameretta nella contea di Witton Gilbert. Era deliziato dal contrasto tra la voce calda e piena di emozioni di Paddy e quella della più “distaccata” di Wendy Smith. Si unì alla band proprio in occasione di questo album.
Ma le inevitabili influenze produttive di Dolby si sarebbero sentite nei passaggi di synth che oggi suonano antiquati. O, per alcuni con un orecchio retromaniaco, potrebbero essere cool. Le sentiamo soprattutto nelle canzoni Faron Young, Bonny, Goodbye Lucille #1 e Hallelujah con quel tocco di Fairlight, negli intro e nei passaggi da solista. Il disco fu limato e praticati gli overdubbing di rito ai Marcus Studios.
Il disco uscì a fine giugno e circolò da subito il video di When Loves Break Down. Nota: l’anno prima era già uscita la canzone prodotta da Phil Thornalley, già bassista dei The Cure, e il resto è storia. Vi consiglio anche l’ascolto della versione totalmente acustica, senza le produzioni di Dolby. La Sony la aggiunse nella Legacy Edition nell’aprile del 2007, per poi ripubblicarlo in vinile lo scorso anno. Stupendo.