Rock

Buon compleanno Rolling Stones: 60 indimenticabili anni di rock e non solo

Il 12 luglio 1962 la band esordì dal vivo al Marquee di Londra. Per festeggiarla riproponiamo l’articolo pubblicato sul numero di maggio dedicato a uno dei più iconici album della band di Jagger e Richards, Exile on Main St.

Autore Alberto Campo
  • Il12 Luglio 2022
Buon compleanno Rolling Stones: 60 indimenticabili anni di rock e non solo

Da sinistra a destra: Keith Richards, Charlie Watts, Mick Jagger, Bill Wyman, Mick Taylor foto di Peter Webb

Il 12 maggio ha compiuto mezzo secolo Exile on Main St.: decimo album realizzato dai Rolling Stones in dieci anni di attività, assumendo per data di nascita quella del debutto dal vivo, il 12 luglio 1962 al Marquee di Londra.

Eppure, a decenni di distanza da quegli eventi, la macchina continua a funzionare, come dimostra la tournée europea – intitolata appunto Stones Sixty – che ha fatto tappa a San Siro il 21 giugno: una longevità indifferente all’usura del tempo e alle perdite subite strada facendo, ultima in ordine cronologico, l’estate scorsa, la scomparsa di Charlie Watts, impassibile motrice ritmica della band.

L’elisir cui si sono abbeverati per rimanere integri fino ai giorni nostri venne distillato proprio in quel periodo.

Il cambio di decennio dei Rolling Stones

Al catastrofico epilogo degli anni Sessanta – il 3 luglio 1969 morì Brian Jones, poche settimane dopo essere stato estromesso dal gruppo, e il 6 dicembre ebbe luogo il famigerato festival di Altamont, la “nemesi di Woodstock” – reagirono creando nel 1970 il marchio discografico Rolling Stones Records, simboleggiato dal logo linguacciuto disegnato da John Pasche, destinato a divenire brand globale: primo titolo in catalogo, nell’aprile 1971, il 45 giri Brown Sugar, battistrada del long playing Sticky Fingers, impacchettato nella celebre copertina a cerniera firmata da Andy Warhol.

Era l’atto che sanciva l’avvio del processo d’industrializzazione del rock: impresa fallita dai “rivali” Beatles, separatisi anche a causa dei guai patrimoniali di Apple, per rimediare ai quali avevano ingaggiato nel 1969 Allen Klein, allora manager degli Stones. A occuparsi delle finanze di Jagger e soci era a quel punto l’aristocratico di origine bavarese Rupert Loewenstein: fu lui a suggerire loro di trasferire la residenza in Francia per sottrarsi alla voracità del fisco britannico, rievocava egli stesso dettagliatamente nell’autobiografia del 2013 A Prince Among the Stones.

Rolling Stones - 2 - foto di Christian Simonpietri - Sygm Corbis
I Rolling Stones a una conferenza stampa a Parigi nel settembre 1970 (foto di Christian Simonpietri / Sygma / Corbis)

Rolling Stones, l’esilio sulla via maestra

Il trasloco in Costa Azzurra cominciò mentre Sticky Fingers primeggiava nelle hit parade di mezzo mondo: a muoversi in avanscoperta fu Keith Richards, adocchiando la lussuosa Villa Nellcôte a Villefranche-sur-Mer, fra Monaco e Nizza, nella quale s’insediò insieme alla compagna Anita Pallenberg – modella e attrice tedesca, in precedenza partner di Brian Jones – e al figlio primogenito Marlon, che avrebbe compiuto due anni il 10 agosto. Anche Mick Jagger stava per diventare padre: sarebbe accaduto il 21 ottobre, quando Bianca Pérez-Mora Macías – diventata sua moglie il 12 maggio a Saint-Tropez in un matrimonio sfarzoso e affollato da vip – partorì Jade.

In tutto questo, dovevano preparare l’album nuovo. Ma dove? Intervistato tempo dopo, Richards spiegò: «Registrare a casa mia fu una necessità. C’era l’idea di cercare un altro posto, tipo una fattoria in collina, ma non riuscivamo a trovarlo, così alla fine si sono rivolti a me. Ho guardato Anita dicendole: “Ehi, piccola, dobbiamo occuparcene noi”».

L’inizio del mito

Ciò che avvenne là nell’arco di sei mesi è storia travestita da mitologia, o viceversa. Inviato per l’occasione da cronista in Francia, lo statunitense Robert Greenfield avrebbe fornito la propria versione dei fatti 35 anni più tardi in Exile on Main Street: A Season in Hell with the Rolling Stones, libro i cui diritti sono stati acquisiti nel 2012 da Richard Branson, intenzionato a ricavarne un film: progetto tuttavia sparito ormai dai radar.

Su quel soggetto si era impegnato frattanto il regista americano Stephen Kijak. Realizzò il lungometraggio Stones in Exile, presentato al festival di Cannes nel 2010, in simultanea con la riedizione deluxe dell’album. Confessa Richards in quel documentario: «Mick ha bisogno di sapere cosa farà domani. A me invece per essere felice basta svegliarmi e vedere chi c’è in giro. Mick è rock, io sono roll».

È intitolato appunto Happy l’unico dei 18 brani cantato da lui. Fu registrato praticamente in presa diretta con chi era lì al risveglio, ad esempio il produttore di fiducia Jimmy Miller alla batteria, anziché Charlie Watts.

Che l’imprinting iniziale sull’opera fosse suo lo confermava Watts stesso: «Molto di Exile… è stato fatto alla maniera di Keith. Cioè suonandolo venti volte, lasciandolo marinare e suonandolo altre venti volte. È un individuo davvero eccentrico e bohémien: sa cosa gli piace, ma è molto sconclusionato». Forse per questa ragione Jagger considera “un po’ sopravvalutato” Exile…: «L’ho dovuto finire da solo, siccome ero circondato da ubriachi e strafatti».

Un capolavoro esausto

Il lavoro era cominciato a metà giugno, una settimana dopo l’arrivo dello studio mobile allestito dagli Stones nel 1968 investendo 65mila sterline e utilizzato nel frattempo anche da altri (Led Zeppelin, Who e Deep Purple).

Si svolgeva con cadenze antelucane: dalle otto di sera alle ore piccole. Intorno fluiva un via vai caotico di collaboratori (Nicky Hopkins al piano, Bobby Keys al sax, Jim Price alla tromba) e celebrità in visita (John Lennon e Yoko Ono, William Burroughs e Gram Parsons, che faceva coppia fissa con Richards in nome di un’amicizia cementata dalla comune dipendenza dall’eroina, di cui morì due anni più tardi). Un laboratorio umano a carburazione alcolica e stupefacente, documentato dal fotografo francese Dominique Tarlé, che immortalò quei momenti con un emozionante sguardo voyeuristico.

Fra gli aneddoti leggendari spiccano un’irruzione della polizia locale a caccia di narcotici e un furto in pieno giorno da parte dei “marsigliesi”. Irritati, pare, per una partita di droga non pagata, portarono via indisturbati nove chitarre di Richards, il sax di Keys e il basso di Wyman.

Al materiale creato ex novo sul posto se ne sommava altro risalente al secondo semestre del 1970. Ovvero un gruzzolo di provini accatastati mentre ultimavano Sticky Fingers. L’habitat però non era ideale, come notava Mick Taylor: «La qualità grezza del suono dipese dalle condizioni del piano terra, molto malridotto e umidissimo. C’erano infiltrazioni dal tetto e interruzioni di corrente».

Rolling Stones - 3 - foto di Joe Sia - Bill Graham Archives
Mick Jagger e Keith Richards dal vivo (foto di Joe Sia / Bill Graham Archives)

Ultimi ritocchi

Al termine della residenza, in ottobre, il risultato ottenuto richiese necessariamente una fase di rifinitura. L’affrontarono fra dicembre e marzo ai Sunset Studios di Los Angeles ricorrendo a ulteriori contributi esterni. In particolare quello di Billy Preston, sotto la supervisione di Jagger, che riprese così il controllo della situazione.

Là, inoltre, si accordò con il designer John Van Hamersveld e i fotografi Norman Seeff (autore degli scatti raffigurati nelle 12 cartoline incluse nel packaging originario) e Robert Frank (è suo Tattoo Parlor, inedito dal famoso volume del 1958 The Americans, usato per illustrare la copertina).

Girovagando nella Città degli Angeli, Mick capitò alla New Temple Missionary Baptist Church dove Aretha Franklin stava preparando Amazing Grace. Ciò infuse negli arrangiamenti il retrogusto gospel che si assapora in Shine a Light e Let It Loose, sommandosi alla vibrazione country di Sweet Virginia, alle citazioni blues (Shake Your Hips di Slim Harpo e Stop Breaking Down di Robert Johnson) e all’iniezione di melanina dovuta a Sweet Black Angel, in onore dell’attivista afroamericana Angela Davis.

Alla fine, con tutti quei fattori in gioco e un mixaggio all’apparenza approssimativo, per effetto del quale la voce impastata agli strumenti rendeva i testi poco decifrabili, era come se l’opera non avesse un centro di gravità e fosse ostaggio della forza centrifuga causata dalla propria mole.

Retrospettivamente, Richards disse nel 2003: «All’inizio non era nostra intenzione fare un doppio. Eravamo andati nel sud della Francia per registrare un disco, ma una volta finito ci siamo detti: “Vogliamo farlo uscire tutto”. La questione è che gli Stones avevano raggiunto un punto in cui non dovevano più fare quello che gli altri dicevano».

Le impressioni della critica

L’accoglienza riservata allora a Exile on Main St. fu controversa. Scrisse Lester Bangs su Creem: «È al tempo stesso il peggiore album in studio che gli Stones abbiano mai fatto e l’uscita più follemente incoerente e stranamente deprimente della loro carriera». Salvo ricredersi in seguito: «Un paio di settimane dopo sono tornato in California. Ne ho preso una copia solo per vedere se fosse migliorato e mi ha fatto cadere dalla sedia. Ora penso che sia probabilmente il migliore album degli Stones».

Scettico Lenny Kaye – futuro chitarrista di Patti Smith – su Rolling Stone: «Exile on Main Street sembra riprendere il discorso lasciato in sospeso da Sticky Fingers, con gli Stones intenti ad affrontare i loro problemi mancando ancora una volta di poco il bersaglio».

Entusiasta invece Robert Christgau, che lo elesse album dell’anno definendolo “capolavoro esausto”. Benché meno del predecessore, si comportò egregiamente in classifica. Andò al primo posto sia in patria sia negli States, ma anche in Spagna, Olanda, Norvegia e Canada.

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