Rock

Sly & The Family Stone: ascesa e declino di un’utopia musicale

Cinquant’anni fa il primo successo in classifica degli Sly & The Family Stone, “Dance to the Music”. La band incarnava lo Zeitgeist: gli hippie a braccetto con il Black Power, assetto multirazziale dell’organico (sei neri e due bianchi), pluralità di genere (cinque uomini e tre donne) ma il declino arrivò rapidamente

Autore Alberto Campo
  • Il20 Aprile 2018
Sly & The Family Stone: ascesa e declino di un’utopia musicale

Il 20 aprile di 50 anni gli Sly & The Family Stone si affacciarono per la prima volta nell’hit parade statunitense raggiungendo l’ottavo posto grazie al 45 giri Dance to the Music, che avrebbe fatto persino meglio nella corrispondente graduatoria inglese – posizione numero sette – in piena estate. La settimana dopo uscì l’omonimo long playing, doppiato ad appena cinque mesi di distanza dall’interlocutorio Life. Erano le avvisaglie di ciò che sarebbe accaduto l’anno successivo: Everyday People, datato in realtà novembre 1968, scalò la classifica dei singoli fino alla vetta e aprì la strada all’album Stand!, destinato a diventare assoluto best seller del gruppo. Era la vigilia dell’apoteosi: già protagonista a luglio – insieme a Led Zeppelin, Miles Davis, Frank Zappa e Sun Ra – del Newport Jazz Festival, la band si esibì il 17 agosto che ancora non albeggiava a Woodstock, dopo Janis Joplin e prima degli Who.

Sly Stone

Impressionante il colpo d’occhio, immortalato per gli assenti e i posteri nel documentario sul festival diretto da Michael Wadleigh: costumi da Era dell’Aquario, acconciature afro, vibrazione trance, coreografie stile Broadway. Sotto il palco: la folla esaltata dall’elettrizzante botta-e-risposta dello spiritual profano I Want to Take You Higher. Era tutto sbagliato, ma funzionava alla perfezione: “Le donne suonavano, gli uomini cantavano, i neri facevano i freak e i bianchi ci davano dentro con il funk”, nelle parole dello storiografo Dave Marsh. Quella degli Sly & The Family Stone era una rivoluzione artistica che incarnava lo Zeitgeist: l’utopia degli hippie a braccetto con il Black Power, comunione simboleggiata dall’assetto multirazziale dell’organico (sei neri e due bianchi), al quale corrispondeva d’altra parte una pluralità di genere (cinque uomini e tre donne). L’epifania di una società libera dalle discriminazioni. E la musica, di conseguenza, aveva lessico da esperanto: le tradizioni gospel e doo wop nell’intreccio delle voci, un impeto ritmico alla James Brown, melodie a presa rapida dal gusto Motown e arrangiamenti di scuola Stax, mentre il basso distorto dal fuzz ammiccava al garage rock e il wah wah della chitarra sapeva di psichedelia.

La composita identità di Sly & The Family Stone bazzicava in una zona intermedia fra i ghetti neri e le comuni di Haight-Ashbury. Nel 1970, dovendo localizzare il proprio linguaggio, il capobanda affermò: “Non posso dire che sia rhythm’n’blues, non posso dire che sia rock, non posso dire che sia pop, perché nemmeno io so cosa sia”. Di sicuro una creatura meticcia, affine a ciò che in simultanea sperimentavano altri visionari di colore quali Jimi Hendrix, George Clinton e – con i Love – Arthur Lee. In quel modo Sly Stone divenne icona afroamericana nella stagione del Flower Power, il cui slancio idealistico riecheggiava nei titoli di alcune canzoni (Everyday People, You Can Make It If You Try, Everybody Is a Star), essendo al tempo stesso contiguo all’attivismo radicale delle Black Panthers, che da un lato lo corteggiavano (riconoscendosi nella fierezza razziale di Don’t Call Me Nigger, Whitey) e dall’altro lo minacciavano (a causa dei visi pallidi in formazione e del manager – David Kapralik – ebreo). L’influenza esercitata fu enorme: tanto fra i contemporanei (il suono della Motown cambiò per emulazione, così come il jazz attraverso Miles Davis) quanto in epoche successive (dal funk avveniristico di Prince all’hip hop caleidoscopico degli OutKast).

Una cosa completamente nuova

Nato a Denton, in Texas, il 15 marzo 1943, secondo di cinque figli in una famiglia devota alla Church of God in Christ, Sylvester Stewart era cresciuto in un sobborgo di San Francisco chiamato Vallejo. Aveva qualità da enfant prodige: da bambino suonava le tastiere e cantava gospel insieme al fratello Freddie e alle sorelle Rose e Vaetta negli Stewart Four, artefici di un 78 giri nel 1952, dopodiché iniziò ad armeggiare con chitarra, basso e batteria, oltre a fare doo wop nei Viscaynes e realizzare alcuni 45 giri da solista (Danny Stewart) o in gruppo (Stewart Brothers). Rese pubblico lo pseudonimo con cui diventò celebre nel 1962, facendo il DJ in radio su KSOL (a Frisco) e KDIA (a Oakland), dove alternava pezzi di rhythm’n’blues ad altri degli “invasori britannici” Beatles e Rolling Stones. Fu reclutato poi dall’etichetta discografica Autumn, per conto della quale produsse dischi di Bobby Freeman, Mojo Men, Beau Brummels e Great Society (futuri Jefferson Airplane). Gli ingredienti erano in tavola: si trattava di frullarli. Nel giro di un paio d’anni, tra il 1964 e il 1966, variando intestazione da Stoners a Stone Soul, radunò il nucleo di musicisti che lo avrebbe affiancato di lì in avanti: familiari (Freddie alla chitarra e Vaetta ai cori, raggiunti nel 1968 da Rose, voce e tastiere), partner (la trombettista Cynthia Robinson, cugina del bassista Larry Graham) e amici di pelle chiara (il sassofonista Jerry Martini e il batterista Greg Errico). Preceduto dal singolo Underdog, l’album d’esordio di Sly & The Family Stone uscì nell’ottobre 1967 annunciato da un titolo programmatico: A Whole New Thing, “una cosa completamente nuova”.

Sly & The Family Stone

Il lato oscuro del successo

Proprio nel momento del trionfo, la storia degli Sly & the Family Stone prese una brutta piega: “La merda cominciò quando ci trasferimmo a Los Angeles nel 1969. Sly era un ragazzo ingenuo e Bel Air gli fece esplodere il cervello. Divenne quasi subito ostaggio di magnaccia, spacciatori di coca e trafficanti, gente che lo adulava dicendogli: ‘Che genio sei!’”, raccontava Jerry Martini. Gli effetti collaterali furono evidenti: forfait ai concerti e conflitti con il pubblico, avendo sempre intorno una corte dei miracoli degna di un romanzo di James Ellroy, tra guardie del corpo armate con cani al guinzaglio, pusher e malavitosi. Una vita sospesa fra paranoia e megalomania. Arrivato un giorno del 1971 in extremis – con elicottero noleggiato apposta – a un talk show del network ABC, alla domanda del conduttore sul suo metodo creativo, rispose: “Quando scrivo, mi guardo allo specchio”. Apogeo artistico e punto di non ritorno fu l’album di quell’anno: There’s a Riot Goin’ On. Opera cupa e distopica, che fotografava lo stato delle cose: le Black Panthers in dissoluzione e l’utopia hippie in frantumi. Il diario personale di una crisi collettiva. In copertina, beffardamente: la bandiera americana con fiori al posto delle stelle. Un capolavoro pari al disco di debutto dei Velvet Underground, positivo anch’esso a un eventuale controllo antidoping.

Da lì in poi fu uno stillicidio: per primo se ne andò Errico, imitato ben presto da Graham, e la parabola imboccò la traiettoria discendente. Dopo il matrimonio con l’attrice Kathy Silva, celebrato sul palco del Madison Square Garden il 5 giugno 1974 di fronte a diecimila spettatori, seguito da un rapido divorzio, ad abbandonarlo furono i “familiari” Rose e Freddie. La bancarotta finanziaria era dietro l’angolo e i problemi con la legge dovuti al possesso di stupefacenti portarono a ripetuti arresti. Tra un’overdose in Florida e tentativi di disintossicazione, l’inizio degli anni Ottanta si tramutò in un calvario. Eppure, intervistato nel 1985 da Spin, dichiarò: “Non recrimino nulla: mi è cresciuta addosso una crosta resistente come epidermide bionica”. Per un po’ sparì dalla circolazione, salvo riaffiorare in modo sporadico e spesso catastrofico durante i due decenni seguenti, tipo alla cerimonia dei Grammy Awards nel 2006 (moicano biondo, occhiali da sole scuri, cappotto argentato), a Montreux nel 2007 e al Coachella del 2010, a traino della Family. Per qualche tempo ha vissuto in un camper ricevendo sussidi sociali: siccome era in vertenza con l’ex manager Jerry Goldstein, non percepiva alcun reddito dalle royalties. E nel 2011 ha pubblicato addirittura un disco, I’m Back! Family & Friends (tra gli ospiti: Jeff Beck e Ray Manzarek), facendo cover di se stesso. Ultimo avvistamento nel 2013, sulle colonne del Guardian, dove vagheggiava un improbabile progetto di band con musicisti albini. Morale? “Certo, ho dei rimpianti, ma adesso non me ne viene in mente nessuno”.

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