Rock

Walking on the wild side: una conversazione con Steve Hunter, storico chitarrista di Lou Reed

Il musicista è fra i protagonisti degli incontri del Medimex 2023, dove ha dialogato con Ernesto Assante e Gino Castaldo in occasione dell’inaugurazione della mostra fotografica “Perfect Day”

Autore Piergiorgio Pardo
  • Il18 Giugno 2023
Walking on the wild side: una conversazione con Steve Hunter, storico chitarrista di Lou Reed

Steve Hunter (fonte: ufficio stampa Medimex)

Uno degli aspetti che rendono il Medimex di Taranto un festival con un suo profilo peculiare e riconoscibile consiste nell’intento di divulgazione e al contempo di aggregazione sociale intorno alla grande musica rock e pop, colta anche nella sua dimensione storica e culturale. Una dimensione che assume particolare risonanza emotiva se calata in un contesto dall’identità forte e stratificata come quello della città dei due mari.

La mostra Perfect Day su Lou Reed

Succede anche in questa edizione con il suggestivo binomio tra il Museo Archeologico Nazionale di Taranto (MArTA) e la mostra Perfect Day. Lou Reed e la New York di Andy Warhol, curata da ONO arte, che ci consente di ricordare con evocativa eleganza la figura del rocker a dieci anni dalla sua scomparsa.

Attraverso le foto di grandi maestri come Allan Tennenbaum, Steve Schapiro, Nat Finkelsten, Mick Rock, Ronn Spencer, rivivono l’ironia spiritata di Lou Reed, la femminilità astratta e severa di Nico, la fisicità spigolosa e lunare di John Cale, l’aristocrazia provocatoria di Andy Warhol.

Attorno alle loro icone si addensa man mano il fascino di una New York laboratorio di tendenze future, la stessa di Bob Dylan, David Bowie, John Lennon e Yoko Ono. Così la mostra finisce con l’essere il racconto di una città e il Perfect Day una misura temporale indefinita, di cui la mostra è la cronaca a sua volta senza una scansione precisa.

La testimonianza del produttore Marc Urselli

Una New York che l’ingegnere del suono e produttore Marc Urselli, tra le persone che hanno più continuativamente accompagnato l’ultima stagione creativa di Lou Reed, ci racconta con parole entusiastiche. «La caratteristica fondamentale di New York, oggi come ieri, è il fatto di essere una scena coesa, in cui gli artisti si sostengono e stimano a vicenda», dice Urselli. «Per questo motivo ho avuto la possibilità di lavorare con tanti grandi musicisti, dagli U2 ai Foo Fighters, da Sting ai Black Crowes, oltre che, naturalmente, Laurie Anderson e Lou Reed».

E ancora: «A volte le connessioni cambiano il destino delle persone. È stato John Zorn a far conoscere Laurie e Lou, prima che iniziasse la loro storia d’amore. E Lou Reed è la persona che ha fatto conoscere al mondo il talento straordinario di Anohni, all’epoca Antony and the Johnsons».

Chiediamo a Marc come fosse lavorare con Reed. «Il suo desiderio di sperimentare era infinito. Non solo per trovare cose nuove, ma anche per confermare la validità di quelle che c’erano, dopo aver trovato ogni alternativa».

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Gino Castaldo ed Ernesto Assante dialogano con Steve Hunter dopo l’inaugurazione della mostra “Perfect Day” (fonte: ufficio stampa Medimex)

L’intervista a Steve Hunter

A conclusione del percorso, la sorpresa più gradita è stata quella di trovare uno dei guitar heroes più grandi di sempre. È suo uno degli intro più celebri della storia del rock, quello di Sweet Jane sullo storico disco dal vivo di Lou Reed Rock’n’Roll Animal. Non ci siamo fatti sfuggire l’occasione di fargli qualche domanda.

Come stanno andando questi giorni al Medimex?

L’Italia è un luogo meraviglioso e ogni occasione di tornarvi mi dà grandi soddisfazioni. A Taranto mi sono trovato benissimo. Al di là del cibo, del vino fantastico, del calore delle persone, mi fa piacere constatare come ci sia un grande desiderio di musica da queste parti. Come potrei stare meglio?

Nell’immaginario collettivo la tua carriera è legata a Lou Reed per la tua celebre introduzione strumentale a Sweet Jane. Che ricordi hai al riguardo?

Ero uno dei due chitarristi del tour, l’altro era Dick (Wagner, anch’egli straordinario chitarrista, morto nel 2014, ndr). Entrambi avevamo suonato nell’album Berlin. Il management di Lou voleva che i concerti si aprissero con una parte strumentale che preparasse il pubblico al suo ingresso, tenendolo un po’ sulle corde.

Io avevo questa progressione di accordi scritta e messa da parte da qualche anno e provai a farla sentire. La cosa piacque e fu usata nella prima parte del tour come introduzione a Vicious, perché il concerto si apriva con quel pezzo.

Per le date americane Lou e il suo management cambiarono idea. Anche perché la faccenda della pubblicazione dell’album dal vivo stava prendendo forma e l’orientamento era quello di non pubblicare brani già inclusi in Transformer, valorizzando invece la fase Velvet Underground.

Il primo brano in scaletta diventò infatti Sweet Jane. Fu emozionante la prima volta che provammo a mettere insieme l’arrangiamento così come lo sentite su disco. Mi sembrava che da sempre le due parti fossero nate insieme.

Hai fatto cenno alla tua esperienza in Berlin, che è uno dei dischi più amati, ma anche controversi, della carriera di Lou Reed. Come fu l’esperienza di quelle session?

Molto impegnativa. Non si trattava soltanto di suonare della musica, ma di immergersi in un racconto e nel mondo, quello interiore di Lou, da cui il racconto scaturiva. Lou era in un perenne stato di grazia creativo, non potevi disturbare la sua concentrazione con un errore o con un atteggiamento superficiale. Ti saresti sentito colpevole. Eravamo tutti al limite massimo delle nostre possibilità, stremati dalla bellezza e dall’intensità delle canzoni che scriveva.

Hai suonato in altri dischi importanti, caratterizzandoli con il tuo stile, sia elettrico sia, in qualche caso, acustico. Vorrei sceglierne due, nei quali peraltro c’era anche Dick e dove il tuo stile ha lasciato un segno anche in termini di innovazione…

Quali? Sono curioso…

Billion Dollar Babies di Alice Cooper e il primo album di Peter Gabriel.

Ottimo! La cosa che in Billion Dollar Babies accomunava tutti i musicisti coinvolti era il blues. Venivamo da lì e in qualche modo tendevamo a tornarci, anche se il suono rimaneva molto moderno. Il blues non era tradizione. Era una specie di ricchezza alla quale attingere per trovare ispirazione. Alice Cooper aveva una forza pazzesca come cantante, non solo come frontman. Fu un’esperienza elettrizzante.

E con Peter Gabriel come andò?

Fu Bob Ezrin, il produttore sia di Berlin sia di Billion Dollar Babies, a tirarci dentro. Lì suonavo anche la chitarra acustica. La cosa che ricordo con maggiore nitidezza era la facilità con la quale trovavi un riff suonando con musicisti incredibili come Tony Levin al basso, per esempio, o Robert Fripp alla chitarra.

Sulla carta sembra quasi un crash culturale, eravate musicisti molto diversi tra voi…

Sì, ma era tutt’altro che un problema perché in studio si formavano delle vere e proprie band. Suonando insieme le differenze si annullano, o comunque finiscono col dialogare. Lo spirito della musica, di qualunque musica, credo sia proprio questo.

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