Rock

The Undertones, il punk dalla faccia pulita. L’intervista

Una compilation in vinile ci ricorda quanto i The Undertones fossero abili nello scrivere brani power pop. Abbiamo incontrato Michael Bradley e John O’Neill

Autore Tommaso Toma
  • Il26 Marzo 2020
The Undertones, il punk dalla faccia pulita. L’intervista

I The Undertones. Da sinistra a destra: Billy, Michael, John e Fergal. Credit: Damian O'Neill

In queste settimane è stato pubblicato West Bank Songs 1978-1983 A Best Of, in un meraviglioso doppio vinile colorato (un disco porpora e uno bianco). La storia di The Undertones, nati prima degli U2 e fondamentali nella genesi del punk, assomiglia molto a una favola.

Quando l’onda punk del 1976 s’infranse anche sulle coste del nord d’Irlanda, cinque ragazzini –  ancora nel pieno dell’esplosione ormonale e con la bocca ancora sporca di cioccolato – giocavano a pallone tra i saliscendi grigi della città di Derry. E captarono immediatamente i segnali del nuovo movimento musicale. Michael Bradley, Bill Doherty, i fratelli Damian e John O’Neill (i maggiori autori delle future composizioni) s’infervorarono suonando cover di glam rock in un piccolo pub. E ben presto non passò inosservato quel tipo sfrontato che sarebbe diventato il loro cantante: Feargal Sharkey. Dall’aspetto simile a un portuale ma dalla voce sublime, quasi da tenore.

Potremmo definire questo incipit oltre a una favola anche a un “classico” inizio della storia di una rock band tra gli anni ’70 e ’80, ma quello che The Undertones hanno di unico, speciale nella loro breve storia discografica, è l’aver saputo passare da perfette e “fulmicotoniche” canzonette punk a raffinate composizioni con venature soul o melanconiche. Lo potete capire ascoltando le trenta tracce di West Bank Songs. C’è ovviamente la mitica Teenage Kicks, l’ironico pop di My Perfect Cousin (scritta “contro” gli Human League), le melodie oblique e struggenti di Julie Ocean, il soul di The Love Parade.

Partiamo proprio dagli inizi: come sceglieste questo bel nome per la band?

Michael Bradley: Iniziammo a fare concerti nel 1976 ma senza avere un vero nome. Ricordo che quando facemmo un live in una scuola di Derry, un insegnante chiese a Feargal come ci chiamassimo, mentre eravamo sul palco pronti per partire. Lui rispose: “The Hot Rods”. Ma c’era un’altra band chiamata “Eddie and The Hot Rods” e a lui non importava. In un’altra occasione, disse che eravamo i “Little Feat”… Quindi, prima che Feargal iniziasse a pensare di farci annunciare come “The Beatles”, prendemmo sul serio la necessità di avere un nome.

Fu Billy a pensare a “The Undertones”: notò la parola (“sfumature” in italiano, ndr) in un libro di storia e ci piacque. Non immaginavamo che sarebbe stato un nome simile a quelli delle band garage degli anni ’60. E neanche stavamo a pensare che facesse rima con Ramones. Ricordo che un cugino di John e Damian (fratello di John, ndr) stava per proporci il nome “Monkey Fuck”, ma non pensavamo che sarebbe stata una buona idea! (ride, ndr)

I vostri inizi furono chiamati “Casbah days” perché l’omonimo pub di Derry fu il punto di svolta per la vostra carriera, giusto?

John O’Neill: Al Casbah suonavano le band hard rock. All’inizio ci permettevano di suonare una volta al mese. Ma, man mano che cresceva il nostro seguito, diventava quasi ogni settimana. Scoprimmo in quel periodo New York Dolls, The Stooges, Velvet Underground e le compilation di Lenny Kaye, Nuggets. Suonavamo un sacco di cover di quelle band ma anche di T. Rex, Slade, David Bowie. E iniziavamo a scrivere i nostri pezzi. La regola di base era suonare almeno una nuova canzone a settimana e fu un momento emozionante: ci distraeva dalla situazione esplosiva intorno a noi. Una gloriosa fuga dalla realtà, l’atteggiamento era: a raw wail from the bottom of the guts («un crudo pianto dal profondo delle viscere», la famosa frase che Lester Bangs utilizzava per descrivere il rock, ndr).

Un aneddoto divertente?

Michael Bradley: Una volta io, Billy e Damian eravamo a Derry. Pensando che avremmo dovuto fare un po’ di pubblicità per la band, decidemmo di andare direttamente nella redazione del giornale locale per chiedere se volessero intervistarci. Non lo fecero. Era il 1979 e, mentre stavamo tornando a casa, ci inventammo di sana pianta una storia falsa secondo cui Billy, il nostro batterista, era morto. Ho chiamato l’NME, da casa di O’Neill – era l’unico con un telefono – e imitando l’accento inglese feci finta di essere Mick Houghton, il nostro addetto stampa. Raccontai che Billy che era stato investito da un autobus a Derry. Dieci minuti dopo ricevemmo una telefonata dal nostro manager, che non vide il lato divertente… Con rapidità si diffuse la news su BBC Radio One. Intimamente penso che una piccola parte di tutto questo fosse divertente…

Come reagiste quando un’istituzione come John Peel proferì quelle storiche parole d’amore per Teenage Kicks?

John O’Neill: Ascoltavamo John Peel già dal ’73. Anche prima del punk era il DJ radiofonico migliore e più esperto. Quando il punk prese finalmente vita nel ’76, fu l’unico a prenderlo sul serio. Quindi è difficile esprimere in modo adeguato quanto fummo emozionati e sorpresi quando lo disse. Non so esattamente il motivo per cui l’abbia detto. Non è una canzone particolarmente bella, ma cattura un’innocenza giovanile, persino ingenua, che si sente di più nei primi anni ’50 del rock and roll. Forse è per questo che la adorava così tanto: gli faceva ricordare gli anni della sua gioventù.

La versione integrale dell’intervista la potrai leggere sul numero di Billboard Italia di marzo.

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