Rock

Tom Waits, il cacciatore di canzoni

Una sequenza di ristampe dedicate alla sezione del suo repertorio amministrata dall’indipendente californiana Anti- riporta all’attualità discografica la figura di Tom Waits

Autore Alberto Campo
  • Il2 Febbraio 2018
Tom Waits, il cacciatore di canzoni

Tom Waits © FreshOnTheNet Flickr

Una sequenza di ristampe dedicate alla sezione del suo repertorio amministrata dall’indipendente californiana Anti- riporta all’attualità discografica la figura di Tom Waits. È lui stesso a spiegare la natura dell’iniziativa: “Questo progetto di restauro può essere paragonato al trattamento di una tappezzeria sbiadita, un procedimento meticoloso che richiede un’attenzione scrupolosa a ciascun filamento di colore stinto. Passare mesi su cose già completate molti anni fa è stato necessario, per quanto maledettamente impegnativo”. Di album nuovi, al momento, non se ne parla: l’ultimo è del 2011.

In epoca recente gli appassionati dell’artista statunitense si sono dovuti accontentare di alcune sortite estemporanee: i due brani del bluesman Blind Willie Johnson – The Soul of a Man e John the Revelator – interpretati nel disco di tributo God Don’t Never Change, uscito nel febbraio 2016, oppure la cover del sempreverde Shenandoah registrata con Keith Richards e inclusa nella compilation Son of Rogue’s Gallery del 2013. E a proposito di Rolling Stones: il 5 maggio di quell’anno Waits salì sul palco di un loro concerto all’Oracle Arena di Oakland per cantare insieme a Mick Jagger Little Red Rooster.

Anche in fatto di esibizioni dal vivo, comunque, massima parsimonia: a metà settembre ha duettato con Mavis Staples sulle note di Respect Yourself al Lagunitas Brewery di Petaluma, mentre il 21 settembre 2013 era fra gli ospiti del tradizionale appuntamento di beneficenza a sostegno dell’associazione non-profit Bridge School. Nient’altro in pubblico, escludendo un paio di apparizioni televisive (nel maggio 2015 per il congedo di David Letterman e in una puntata dei Simpson nel gennaio 2013) e la partecipazione alla cerimonia di ammissione alla Rock’n’Roll Hall of Fame nel marzo 2011. Interviste, nemmeno a parlarne: le ultime risalgono al 2013, durante la routine promozionale del libro fotografico dedicatogli da Anton Corbijn.

Unica deroga, quella concessa nel marzo scorso al New York Times per lo style magazine “T”, dove raccontava: “Mi piace starmene seduto al piano. E mi piace l’idea di cose che entrano dalla finestra, dentro di te e poi nel pianoforte, uscendo infine dalla finestra opposta. Se vuoi catturare le canzoni, devi pensare in quel modo, rendendo te stesso un posto interessante su cui possano posarsi come uccelli o insetti”.

Foto di Jesse Dylan

L’evoluzione di un maudit

L’uomo, del resto, compie 68 anni il 7 dicembre: età da pensione secondo i canoni restrittivi in vigore da noi nel 2019. La musica dovrebbe fare però eccezione: se ne produce finché l’estro assiste. Che il suo abbia perso slancio, allora? C’è da dubitarne. Altro può essere il problema, semmai: avendo stabilito in passato standard elevatissimi, meglio tacere anziché abbassarli. Molto più e al contempo molto meno di un semplice cantautore, Thomas Alan Waits in effetti scrive e canta le proprie canzoni, ma i risultati sono talmente estranei alle convenzioni da eludere qualsiasi categoria codificata.

Fa genere a sé, insomma. Fin dall’epopea da cantastorie bohémien nel caliginoso sottobosco dei nightclub di Los Angeles, all’inizio degli anni Settanta, quando ambientava i suoi racconti in un habitat sonoro fatto di blues al catrame, jazz di seconda mano e schegge di Tin Pan Alley. Scenario nel quale si muovevano eroi male in arnese, come in un Sogno Americano osservato dal basso, alla maniera di Kerouac, Fante e Bukowski, di cui cantava le gesta inconsulte con voce irruvidita da alcol e tabacco, simile a un orco dal cuore tenero, ad esempio nel memorabile apogeo di quel periodo: Blue Valentine (1979).

Invece di immolarsi sulla croce riservata ai maudits, tuttavia, decise di salire dal lato opposto del Calvario, imboccando un sentiero mai percorso da chicchessia, allo scopo di creare musiche “per dare forma ai rumori che ho in testa”. Ecco dunque ritmi claudicanti e melodie sbilenche, tipo una metamorfosi farneticante del teatro musicale di Brecht e Weill, con orchestrazioni mutuate dal bricolage del visionario Harry Partch. Ad aprire il nuovo corso, nel 1983, fu un’opera di deforme bellezza: Swordfishtrombones. E altri capolavori sarebbero venuti in seguito, costruiti su canzoni angolose e scavate dall’esperienza, quasi riflessi del suo volto ammirato al cinema, sovente nei panni del disadattato, in Daunbailò di Jim Jarmusch, accanto a Roberto Benigni, o in America oggi di Robert Altman. Fra gli apici: Rain Dogs (1985) a Mule Variations (1999).

Maturità rimasterizzata

Quest’ultimo, uscendo a metà dicembre, chiude la parte iniziale del ciclo di riedizioni rimasterizzate. Pubblicato in origine allo scoccare del cinquantesimo compleanno dell’autore, si mostrava forse meno avventuroso degli immediati predecessori: perciò fu premiato da un imprevisto successo commerciale – Disco d’Oro persino in Italia! – nonché da un Grammy Award.

Ad aprire la serie, il mese scorso, è stato viceversa Bad as Me: album dignitoso ma non memorabile, capace di salire comunque fino al sesto posto nell’hit parade americana (mai un suo titolo aveva raggiunto una posizione così elevata). Datata 2011, era la prima collezione di brani inediti – blues primordiali, rumbe abrasive, spasmi espressionisti, rauche ballate jazz, filastrocche paranoiche – dopo sette anni di silenzio. Tanto distava il precedente lavoro da studio, Real Gone (proposto nell’occasione in un nuovo mixaggio): episodio atipico per l’uso parsimonioso del beneamato pianoforte e le ritmiche prodotte con la voce, mentre alla batteria compariva il figlio Casey.

In contemporanea sono tornati in commercio Alice e Blood Money: concepiti nel 2002 volendo dare sfogo tangibile alla cospicua mole di materiale composto da Waits – insieme alla moglie Kathleen Brennan, divenuta frattanto partner inseparabile anche dal punto di vista creativo – per il teatro. Il primo era una rielaborazione delle musiche destinate a uno spettacolo presentato nel 1992 ad Amburgo, ovviamente ispirato al personaggio creato da Lewis Carroll.

Il secondo immortalava su disco il corredo musicale di Woyzeck, opera che debuttò il 14 novembre 2000 a Copenaghen, ispirata al dramma omonimo del letterato tedesco Georg Büchner. Regista di entrambi gli spettacoli era Robert Wilson, con il quale Tom Waits aveva cominciato a collaborare ai tempi di Black Rider: allestimento teatrale su testo di William Burroughs, foriero anch’esso di un album nel 1993.

Foto di Michael O’Brien

Orfani, lustrini e malasorte

Ecco poi ricomparire, proprio in questi giorni, il live del 2009 Glitter and Doom, dal tour intestato a “lustrini e malasorte” che l’anno prima lo condusse all’Arcimboldi di Milano per tre serate (due delle quali rappresentate nella scaletta del disco): eventi mondani cui assistettero assortite celebrità nostrane (da Benigni a Capossela arrivando a Milva).

Waits era in scena acconciato come una specie di spazzacamino e pestava i piedi sul palco sollevando nuvole di polvere: uno show scorbutico e minaccioso, dall’atmosfera luciferina (era reduce dal ruolo del diabolico Mister Nick in Parnassus di Terry Gillian, restando a tema). Completerà infine la collana, nel 2018, una versione riveduta e corretta della monumentale raccolta Orphans del 2006: tre ore abbondanti di musica (su altrettanti CD), fra brani destinati al cinema, ideati per conto terzi o ancora sue cover di pezzi altrui (da Leadbelly ai Ramones), accanto a una ventina d’inediti: il totale dà 56.

Un repertorio spartito fra “Attaccabrighe”, “Lamentosi” e “Bastardi”, recita il sottotitolo (Brawlers, Bawlers and Bastards): “Orphans contiene canzoni per qualsiasi occasione – dichiarò allora – Alcune sono state scritte disordinatamente e registrate nottetempo viaggiando in auto, altre sono state scritte in camere d’albergo e registrate a Hollywood in mezzo a grandi fuochi d’artificio”. Minimo denominatore comune, la sua voce: “Il mio strumento”, concluse nella circostanza.

E nell’intervista citata in precedenza, sull’argomento, ha dichiarato: “Ci metti un mucchio di tempo a trovare la tua voce, a identificarne i limiti o le infinite possibilità… Cantare non è altro che fare cose interessanti con l’aria, ricavando forme, allungandola e torcendola”.

Articolo pubblicato sul numero di Billboard Italia di dicembre-gennaio

Share:

PAOLOOO