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Vent’anni di DNA concerti: intervista al CEO Pietro Fuccio

Il CEO e fondatore di DNA Concerti, Pietro Fuccio, ripercorre le tappe di un percorso ormai lungo, analizzando le caratteristiche ma anche le “stranezze” del mercato italiano

Autore Damir Ivic
  • Il31 Luglio 2018
Vent’anni di DNA concerti: intervista al CEO Pietro Fuccio

PJ HARVEY 19 © stefano masselli - DNA Concerti

È un anniversario importante per una delle agenzie più riconoscibili nel circuito italiano della musica live: DNA Concerti. Da sempre con un occhio di attenzione verso generi musicali ben precisi (per cui si potrebbe usare, in maniera estensiva, la definizione indie), negli ultimi anni si sta in parte ridefinendo. Ne parliamo col CEO e fondatore, Pietro Fuccio, ripercorrendo le tappe di un percorso ormai lungo e analizzando le caratteristiche ma anche le “stranezze” del mercato italiano.

Pietro Fuccio, fondatore e CEO di <yoastmark wp-image-12430

Cosa è cambiato per DNA Concerti, in questo percorso lungo vent’anni, nel rapportarsi con artisti e grandi agenzie, quelli che rappresentano alla fonte gli artisti internazionali e con cui i vari promoter locali, come voi, si accordano per le esibizioni nel proprio paese?

Molto semplicemente: i soldi. Ora ne vogliono molti di più. Per quanto riguarda nello specifico DNA Concerti, devo dire che negli ultimi anni progressivamente abbiamo iniziato a lavorare sempre di più con gli artisti italiani, cosa prima rara, il che ci garantisce un rapporto diretto, senza intermediazioni – questo ci riporta in qualche modo ai nostri inizi, quando lavoravamo con nomi stranieri più piccoli.

Sono cambiate in qualche modo anche le dinamiche dei contratti? C’è ancora le regola dell’80/20, ovvero che al netto delle spese l’80% del guadagno va all’artista e solo il 20% al promoter?

Le percentuali sono diventate ancora più estreme, in qualche caso. Però in generale i contratti sono più o meno sempre gli stessi. Ovvero, clamorosamente sbilanciati a favore dell’artista.

Al di là della distribuzione degli utili, già estrema di suo, c’è come standard anche una serie di clausole davvero vessatorie, come la possibilità di annullare un concerto senza pagare penali o comunque tutta una serie di richieste molto onerose, in qualche caso inutilmente onerose, per il promoter locale.

Assolutamente così. Una situazione che deriva da due fattori: il primo è il potere contrattuale, dato dalla pluralità di persone che ti cercano per organizzare un tuo concerto, cosa che ti permette di avere sempre un’alternativa da mettere in campo e, detto in modo sbrigativo, qualsiasi artista troverà sempre un promoter locale disposto a raccogliere la merda che non voglio raccogliere io – se mi posso permettere l’espressione cruda – e questo vale per l’Italia più ancora che per altri paesi). Secondo fattore: l’arroganza congenita dei grandi agenti inglesi. Credo siano due fattori immutabili in questo sistema, non vedo cambiamenti all’orizzonte.

St. Vincent (foto di Stefano Masselli)
St. Vincent (foto di Stefano Masselli)

Interessante il primo punto: come mai esistono così tanti attori in campo, in Italia?

Ottima domanda. Lo sbilanciamento, in eccesso, di operatori rispetto a quanti acquistano effettivamente il prodotto per me è inspiegabile. La ragione che ho provato a darmi in questi anni, ma non sono ancora del tutto convinto sia la risposta corretta, è che il livello di attenzione verso la qualità del lavoro nel nostro settore sia talmente basso da creare una professionalità generale altrettanto povera di preparazione, ma ovvio che non vale per tutti: in Italia c’è chi lavora comunque benissimo. Un agente straniero che deve vendere i suoi artisti in Italia parte dal presupposto che se decide di non lavorare con me o con altri attori qualificati e con esperienza ma di farlo con uno qualunque, più di tanto non ci perderà.

Immagino derivi dal pregiudizio che si ha nei confronti dell’Italia.

Proprio così, per l’agente inglese medio l’esperienza del passaggio in Italia significa mettere in conto delle problematiche e delle disfunzionalità che poi, a dire il vero, spesso manco si verificano. Si raccontano fra di loro. “Eh, ma ricordi quando in Italia sono stati aggrediti dalla security della loro stessa data…”. Peccato che sia successo quarant’anni fa, ma loro nulla, continuano a raccontarsela come se fosse accaduto ieri. Ti puoi anche trovare bene col tuo promoter locale storico insomma, ma pensi che in fondo vada bene tenerlo sulle spine dando ogni tanto i tuoi artisti a qualche nuovo soggetto in scena di affidabilità non verificata, tanto “…si sa, in Italia è sempre un po’ un casino”.

Moderat (foto di Stefano Masselli)
Moderat (foto di Stefano Masselli)

Al di là dell’accresciuta presenza di artisti italiani, mi sembra che in generale sia aumentato il ventaglio stilistico degli artisti in roster per DNA Concerti. Non c’è il rischio di una perdita d’identità?

A livello di esperienza personale, posso dire che lavoro molto meglio da quando abbiamo allargato lo spettro musicale. Non siamo più quelli che fanno i Sonic Youth e i gruppi che assomigliano ai Sonic Youth o i Wilco e i gruppi che assomigliano ai Wilco… Sei meno esposto al pericolo che determinati filoni musicali si esauriscano o, meglio detto, vengano considerati esauriti dal grosso del pubblico. Il punto è che il promoter arriva a valle di tutta la filiera. Nasce tutto dalla discografia, è improbabile che un promoter riesca a creare un fenomeno dal nulla, con la sola forza delle esibizioni dal vivo. Tutti dicono il contrario, ma secondo me è falso. Forse qualcuno dovrebbe provare a fare il promoter inglobando tutta la filiera fin dall’inizio.

Ci si è già pensato quando qualche anno fa improvvisamente sembrava che il matrimonio tra major discografiche e grandi agenzie fosse una dinamica inevitabile per unire i vari stadi della filiera. Invece tutto si è arrestato.

Evidentemente non ha funzionato: il perché ce lo dovrebbero spiegare quelli che hanno provato a farlo. È capitato anche a me di ricevere delle offerte. Tuttavia in generale il discorso era che le case discografiche volevano una percentuale sul cachet delle date che tu chiudevi. Bizzarro: siamo passati dal tour support, quando cioè erano le case discografiche a co-finanziare i tour di alcuni artisti aiutando i promoter, all’esatto contrario. “Eh, ma perché coi dischi non si guadagna più, ora guadagni solo te che organizzi i concerti”: interessante. Ad ogni modo, mi pare che questa idea di unire grandi etichette discografiche e agenzie di concerti si sia spenta nel silenzio generale.

Quali sono stati i concerti più complessi che DNA Concerti si è mai trovata a fare?

Complesso nel senso di difficile e quindi stimolante, direi Kraftwerk, ad esempio i loro concerti in 3D. Nella gestione dell’artista, Einstürzende Neubauten. Complesso nel senso di inutilmente complicato, Blur, perché la loro crew creò problemi lì dove non ce n’erano, solo per il gusto di farlo!

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