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Da Lisbona a Porta Venezia, Populous a tutto tondo

Andrea Mangia, meglio noto come Populous, ha firmato alcune fra le produzioni più sorprendenti di area indipendente made in Italy. Ma è anche un artista a tutto tondo che ha saputo intuire prima di tanti altri che il futuro della pop music era legato ai suoni del mondo. Lo abbiamo intercettato in vista del suo live ad Apolide Festival

Autore Federico Durante
  • Il11 Luglio 2019
Da Lisbona a Porta Venezia, Populous a tutto tondo

© Ilenia Tesoro

Negli ultimi anni – e finalmente anche in Italia – nell’industria musicale è diventata sempre più centrale la figura del producer. Lo è sempre stata, com’è ovvio, ma mai con la visibilità di cui gode oggi: i produttori pubblicano album a loro nome, giocano alla pari con gli artisti e in alcuni casi sono delle vere e proprie star conosciute anche dal grande pubblico. Andrea Mangia, meglio noto con il moniker di Populous, ha firmato alcune fra le produzioni più sorprendenti di area indipendente made in Italy (si veda per esempio il lavoro con Myss Keta). Ma non solo: Populous è un artista a tutto tondo e dal pedrigree internazionale, che ha saputo intuire prima e meglio di tanti altri che il futuro della pop music era legato ai suoni del mondo.

Quella che una volta chiamavamo “world music” è sempre di più una fonte primaria di materiale sonoro per l’elettronica e per il pop, anche da classifica. Non sorprenda quindi che i suoi riferimenti spazino con disinvoltura dal super mainstream di J Balvin («un signor produttore») alla nicchia delle etichette elettroniche portoghesi. Fra i vari impegni, Populous si esibirà dal vivo ad Apolide Festival il 18 luglio.

Un pezzo come Xananas è uno dei migliori della produzione di Myss Keta perché hai saputo dare quel tocco “tropical” che lei non necessariamente possiede. Ci racconti com’è l’interazione fra voi e com’è il lavoro su un’artista così particolare come lei?

Innanzitutto c’è una certa affinità che rende la collaborazione molto naturale e semplice. CI si confronta in maniera molto libera e tranquilla e si decide di andare avanti con idee spesso bizzarre. Xananas nasceva dal fatto che una sera eravamo al Blanco (bar in zona Porta Venezia a Milano, ndr) e scherzando ci siamo detti: “Dovremmo fare un cocktail e chiamarlo Xananas”, che è una cosa che unisce due concetti distanti, cioè gli psicofarmaci e la roba tropicale.

Da lì è nata l’idea di fare questo pezzo che in sostanza è una sorta di cumbia digitale, però declinata in versione electro un po’ alla Grimes, alla Chromatics, per intenderci, per via di quei synth anni ’80 che ci sono. Alla fine, in maniera del tutto scherzosa, è saltato fuori un pezzo che è stato abbastanza iconico sia per lei che per me. La collaborazione continua, proprio perché c’è un rapporto di amicizia. In questo momento sto lavorando al mio nuovo disco, dove lei sarà ospite insieme a una serie di altre ragazze.

Quando uscirà questo nuovo progetto discografico? In che stato è al momento?

Sono nella fase finale. Ho già scritto tutti i pezzi e sto aspettando di sistemare le varie registrazioni. L’avevo lanciato un po’ scherzando sul mio profilo Facebook. Un po’ di tempo fa avevo detto di voler fare un disco perché mi ero rotto il cazzo del fatto che le donne nel mondo discografico siano spesso trattate come personaggi di serie B. Per cui ho chiesto solo ad artiste donne di collaborare. È nato come una boutade, poi alla fine l’ho fatto davvero. Non ci sono solo cantanti ma anche producer, graphic designer, DJ. Myss Keta è una di loro.

Facendo un passo indietro a quello che è il tuo ultimo album, Azulejos del 2017, volevo chiederti: Lisbona non è esattamente la prima città che viene in mente quando uno pensa alla mappa del clubbing europeo; tu cosa cercavi e cos’hai trovato?

Per me in realtà era il contrario. Quando pensavo a una città in Europa che avesse una forte scena di clubbing, ho pensato subito a Lisbona. Loro sono davvero underground. Hanno un paio di realtà che sono molto forti. Una è quella capitanata da Branko dei Buraka som Sistema e dalla sua label, Enchufada. L’anno scorso ho anche avuto il piacere di suonare al NOS Alive (festival estivo, ndr) su un palco dedicato all’etichetta. L’altra realtà è quella che ruota attorno all’etichetta Príncipe Discos. Sono tutti ragazzi angolani trapiantati a Lisbona che fanno una musica molto “primordiale” e ritmica. Si tratta sostanzialmente di ritmi africani digitalizzati e sputati fuori con dei bassi supersonici. Sono produzioni molto crude ma funzionano bene sul dancefloor. Io seguivo questa scena e volevo semplicemente andare a vedere come funziona lì.

Mi sembrava una sorta di ponte fra il sud America e l’Europa. Se uno cerca degli spunti per il clubbing tradizionale così come la gente lo intende (techno, house), allora magari va a Parigi, Londra o Berlino. Però se si cerca qualcos’altro, di più esotico, la scelta va sicuramente su Lisbona. Loro hanno questo input molto forte che proviene dal Brasile e dall’Angola. Questa componente sudamericana e africana è molto presente. C’è anche un pezzo del nuovo disco di Madonna che è totalmente Lisbona: Faz Gostoso con Anitta. Riprende pari pari tutta la scena di cui ti ho appena parlato.

Il suo disco ha una dimensione molto “glocal”: la world music è sempre più diffusa anche in ambito mainstream. Poco tempo fa Steve Aoki mi diceva che questo è un momento d’oro per le culture “non dominanti” per prendersi il centro della scena. Latin pop e K-pop sono alla testa di questo movimento ma là fuori c’è tutto un mondo che scalpita per entrare, pensiamo per esempio all’urban flamenco di Rosalía. Cosa sta succedendo?

So benissimo cosa pensano un sacco di italiani (gli hipster) di Rosalía e J Balvin: “Sono merda, hanno rotto il cazzo, cosa ci fanno al Primavera Sound” eccetera. Ragazzi: loro fanno musica di qualità. Non vi piace perché la accomunate a Despacito? È difficile spiegare le differenze e far capire che J Balvin è un signor produttore e i suoi beat sono stupendi, e che le produzioni di Rosalía sono fatte da El Guincho, che era quasi sparito e ora giustamente sta avendo l’attenzione che meritava già quindici anni fa. Questa roba “tropical” a livello mainstream è tornata in auge adesso, ma nel nostro circuito avevamo già annusato tutto questo interesse da tempo.

È una cosa che non può essere ignorata: la musica latina sta prendendo piede perché ha un twist in più. Oggi come oggi, le produzioni che vengono da quella parte del mondo osano di più. Abbiamo sempre pensato che quella musica fosse super tradizionalista, e invece adesso sta succedendo qualcosa. Sono loro i primi che la stanno contaminando con tutto ciò che è europeo. Il disco di Rosalía è pieno di riferimenti a etichette colte come la PC Music. E fondamentalmente quello è un album molto coraggioso, estremo, pesante. Non si può dire che quello è un disco pop solo perché ha dentro un singolo come Malamente.

Populous - foto di Carmen Mitrotta
Populous (foto di Carmen Mitrotta)

Con i suoi esperimenti di world music che fece in passato, un artista come Peter Gabriel può essere considerato una sorta di padre putativo del tuo modo di fare musica?

Lo è sicuramente, ma in generale i suoi Real World Studios (studio di registrazione progettato da Gabriel, vicino a Bath, ndr) sono stati una cosa abbastanza iconica. Io ho massimo rispetto. Ha fatto questa cosa tanti anni fa, anche in modo rispettoso. È importante l’approccio che si ha in queste cose. È sempre dietro l’angolo l’accusa di appropriazione culturale da parte di noi occidentali. Ma alla fine io ho la coscienza pulita: ho suonato in Messico, Spagna, Portogallo e ovunque mi hanno trattato come se fossi uno di loro. Vuol dire che il mio approccio alla materia musicale era fatto con enorme rispetto, che non volevo solo rubare un’idea musicale. Io davvero ho sentito un campanello in testa tanti anni fa, pensando: “Questa roba qua è pazzesca”. La musica latin ha una componente sexy che fondamentalmente manca a tutta la musica occidentale.

Secondo te c’è un rischio di “scimmiottamento” insito in un certo modo di fare contaminazione musicale?

È un tema molto dibattuto all’estero e poco in Italia. Bisogna dare il giusto peso al tema dell’appropriazione culturale. Tutte queste persone, che fanno questa roba da una vita, potrebbero vedere non di buon occhio il fatto che arriva un ragazzino inglese o svedese che gli “ruba” i ritmi e li rifà al computer. È importante la maniera in cui viene fatto. È una cosa che – quando uno ascolta la musica e prova a conoscere il progetto dell’artista – è evidente. Chiaro: tantissime persone che fino a ieri facevano minimal techno adesso magari fanno delle cose un po’ contaminate. Quella roba fa un po’ ridere: te lo dico sinceramente. Un conto è se lo fai da anni e se c’è dietro uno studio, un altro conto è “annusare” la possibilità di fare la hit in quel modo. Si sgama subito.

Parlando di live, mi sembra che tu abbia un’idea molto chiara del modo in cui vuoi fare i DJ set. In un’intervista, per esempio, hai detto: “Mi piace intraprendere un percorso musicale che deve arrivare lentamente fino ai 150 bpm, quando la gente si scatena”. Come concepisci la performance dal vivo, da quel punto di vista?

La prima regola è non prepararsi mai nulla. Se c’è una cosa che ho imparato, è che prepararsi le cose prima è davvero noioso e non viene percepito più di tanto dalle persone in pista. Ogni festival, ogni serata è una situazione diversa. La cosa fondamentale è imparare a leggere la tipologia di situazione: osservare molto le persone, magari farsi un giro nel pubblico prima di suonare, capire perché sono lì, cosa potrebbero apprezzare di più. La cosa che cerco di fare sempre è accompagnarli in un percorso. Mi piace prendere le persone per mano e farle partire lentamente fino a che non si arriva a velocità abbastanza sostenute, facendo crescere poco alla volta, per cui poi non si fermano più.

In un set techno è quasi obbligatorio che i bpm oscillino fra i 125 e i 130, mentre la musica “global bass” ti dà la possibilità di essere ballabile anche a 100 bpm. Al NOS Alive di Lisbona io avevo uno slot subito prima della serata – erano le 20 o le 21. Io ho cercato di tenere i bpm bassi, pensando di fare al limite una cosa “ascoltabile”. Invece no: ballavano tutti, perché un certo tipo di musica ti dà il giusto swing anche se non è a 130 bpm, e questa è una cosa che mi fa impazzire.

All’estero la figura del produttore è ampiamente riconosciuta e assodata. In Italia forse solo adesso sta iniziando a ricevere il giusto riconoscimento a livello artistico. Oggi alcuni nomi di produttori sono conosciuti anche dal grande pubblico. Qual è il tuo punto di vista su questo fenomeno?

È una cosa che va di pari passo con la crescita di popolarità di tutta la scena elettronica, e soprattutto dei DJ. I produttori negli ultimi anni sono diventati delle vere e proprie “star”. Pensa a Jamie xx: non solo è il produttore dei The xx, ma è anche un signor produttore per conto suo ed è diventato una vera e propria celebrità. Allo stesso modo Mark Ronson. La figura del produttore è diventata sempre più “glamour”. Quindi è normale che grosse star utilizzino un certo tipo di nomi di produttori per avere ancora più appeal.

Io ultimamente ho fatto uno studio sul beatmaking e su chi fossero i producer più forti degli ultimi anni. Un personaggio come Missy Elliott senza Timbaland non sarebbe andato da nessuna parte. È una grandissima rapper ma è quel connubio che li ha resi iconici entrambi. Per cui sì, l’appeal dei producer cresce sempre di più e né le etichette né gli artisti possono più farne a meno.

Ascolta Azulejos di Populous in streaming

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