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Italia e grandi festival, l’eterna chimera

A parte rare eccezioni, l’Italia rimane cronicamente carente di eventi paragonabili a un Primavera o a un Glastonbury. Eppure gli italiani affluiscono in massa ai grandi eventi in Europa

Autore Claudio Biazzetti
  • Il6 Luglio 2023
Italia e grandi festival, l’eterna chimera

Foto di Tony Pham / Unsplash

Testimonianze documentate di italiani a Woodstock ne esistono. Ma riguardano pochissime persone, all’epoca quasi tutte nell’industria discografica e in quindi America per lavoro.

Parliamo di una ristretta cerchia di privilegiati, quindi, che ci aiuta se non altro a individuare il periodo storico in cui effettivamente in Italia abbiamo iniziato a guardare ai festival stranieri con un’ammirazione mistica, un fascino avvolto da un’aura di mistero esotico.

Probabilmente la prima meta abbordabile di raduno pop (adotteremo il termine festival almeno un decennio più tardi) a questo punto è stata la famosa Isola di Wight, cantata dai Dik Dik prendendo pari pari una canzone in francese di Michel Delpech e italianizzandola alla buona.

È così, con l’Inghilterra e i vari Reading o Glastonbury, che il popolo italico ha scoperto che c’era vita oltre Sanremo e le sagre di paese con l’orchestrina di liscio.

Le origini dei festival in Italia

Non che di tentativi di raduni di musica e giovani dalle nostre parti non ne avessero fatti, prima e dopo la cosiddetta Summer of Love. Basti solo pensare ai vari Re Nudo al Palco Lambro, con un corollario di racconti leggendari al seguito. Tipo Demetrio Stratos che con i suoi Area fa prendere per mano la gente sotto il palco e collega ai capi del pubblico due cavi collegati al synth, trasformando l’intera folla in una gigantesca resistenza che fa alzare la frequenza degli oscillatori. Episodi molto isolati, in ogni caso, che rappresentano piccoli lampi in un’era generalmente buia.

Con gli anni ’80 e ’90 i festival all’estero diventano molto meno misteriosi, più vicini anche grazie a una globalizzazione radio e tele-trasmessa che concede un inglese risicato a chiunque. La vita in tenda, le avventure amorose, i racconti epici da gonfiare ulteriormente una volta tornati in patria: non può essere soltanto questo che rende i festival all’estero così speciali.

Un tempo magari si poteva dire che certi artisti in Italia non ci mettono proprio piede. Quindi si spiegherebbe la necessità di espatriare per godersi nomi importanti. Per pochissimi artisti è ancora così, soprattutto nel rap americano.

Eppure, diverse manovre coraggiose come Kendrick Lamar che apre il tour mondiale proprio al Milano Summer Festival 2022 o Travis Scott che ci ritorna quest’anno dimostrano che non ci si può più appigliare all’elemento artistico.

Il falso problema degli artisti che non vengono in Italia

Ormai tutti suonano qui. Al Lido di Camaiore quest’estate viene Nas, ospite de La Prima Estate. Insomma, se la montagna ormai va tranquillamente da Maometto, dev’esserci per forza una ragione che spieghi la nostra esterofilia.

Perché di esterofilia in ogni caso si parla. La stessa che spiega il cliché per cui “gli italiani sono ovunque”. Da cosa deriva il fascino dei festival all’estero? «Prima di tutto, bisogna definire un festival», spiega Guido Savini, alfiere nella direzione artistica di C2C.

Il suo è il festival indoor più grande d’Italia, a Torino ogni prima settimana di novembre, ed essendo anche l’unico a essere annoverato tra i 30 migliori festival del 2023 secondo Pitchfork, vuol dire che è anche uno dei pochi nel nostro Paese ad avere per davvero un appeal internazionale.

«Un festival è una cosa che succede in un numero limitato di giorni e ha una proposta molto varia. Con spettacoli che avvengono contemporaneamente in palchi diversi», continua Savini. «Il motivo per cui esistono pochi eventi del genere in Italia non è di certo perché agli italiani non piace il format, anzi. Il problema è in realtà molto pratico: qui ci sono dei costi di messa a norma delle location, delle limitazioni sul sovraffollamento degli spazi che sono molto stringenti».

In parole povere, per fare un investimento gigantesco su un evento che dura tre giorni, il gioco non vale la candela. Si spiegano così, racconta Savini, le rassegne musicali. «Tu crei un’area per concerti e poi ci organizzi live per uno, due, tre mesi.» Ed è esattamente il caso del Milano Summer Festival di cui sopra, per esempio. «Il bello di un festival, secondo me, è che arrivi e non conosci nessuno: dopo tre giorni conosci tutti».

I “festival boutique”

Non bastasse, negli ultimi anni post-pandemici in Italia c’è stato un boom di tour di artisti singoli che riempiono stadi o palazzetti di grandi dimensioni, magari anche solo per una data. Questo significa biglietti che costano di più e soldi che scarseggiano nelle tasche del pubblico, specie nel caso di un concetto di evento totalmente opposto: molti artisti spalmati in più giorni di festival. «Capisci bene che, se scarseggia la domanda, è molto difficile proporre un’offerta».

Il concetto esotico è quindi inscritto nella definizione stessa di “festival”. Chiunque ne abbia fatto uno, che sia un Roskilde o il più semplice dei Primavera Sound, può rievocare ricordi che per forza di cose non hanno paragoni simili in Italia, se non in quelli molto piccoli e di nicchia.

C’è chi li chiama comunemente “festival boutique” per via delle dimensioni ridotte, della proposta artistica ricercata e forse anche dell’esclusività che la capienza limitata comporta. Personalmente non penso che la parola “boutique” renda giustizia a weekend allungati che molto spesso sono dei piccoli capolavori. Vedi i vari Ortigia Sound System, Terraforma o lo stesso Lost Festival nel gigantesco labirinto di bambù a Parma.

E se l’amico a cui pesa il culo potrebbe lamentarsi dei chilometri a piedi avanti e indietro tra un palco e l’altro a cui si è sottoposti in un grande festival straniero, anche lì in realtà si sta ovviando al problema. Quest’anno il Primavera Sound di Barcellona ha ottimizzato la gigantesca area del Parc del Fòrum accentrando i palchi senza però rinunciare alla modesta capienza quotidiana di 80mila persone. E senza soprattutto creare pericolosi ingorghi tra i flussi di gente.

Conclusioni

Entreremo mai nel big game degli eventi stranieri o rimarremo per sempre uno dei più grandi esportatori di orecchie da festival del mondo? Forse, in fin dei conti, quella del Sónar è sempre stata prima di tutto una scusa per un bel viaggetto a Barcellona con gli amici. Se un domani lo facessero a Imperia, potrebbe perdere di magia.

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