Quali spazi di crescita per il repertorio italiano? Una conversazione con Matteo Fedeli (SIAE)
Internazionalizzazione, Sanremo, scenari futuri: una conversazione a tutto tondo con il direttore generale di SIAE
Si è svolta dal 21 al 27 novembre la sesta edizione della Milano Music Week, di cui SIAE è sempre stata fieramente fra i promotori al fianco di FIMI, Assomusica, NuovoIMAIE e Comune di Milano.
Infatti, al di là dell’ossessione milanese per le molte “Week” che affollano il calendario nel corso dell’anno, per la collecting society presieduta da Mogol è fondamentale che in quella che è (anche) la capitale dell’industria discografica italiana si svolga un appuntamento fisso per chiamare a raccolta il settore, confrontarsi e fare massa critica.
Classe 1984, ingegnere gestionale, Matteo Fedeli è dal 1° gennaio 2023 il direttore generale di SIAE, subentrando a Gaetano Blandini. Insieme a lui facciamo una panoramica sullo stato attuale e sulle opportunità future del repertorio musicale italiano.
L’intervista a Matteo Fedeli
Perché è così strategico che gli attori più istituzionali della music industry italiana promuovano attivamente un evento come la Milano Music Week?
Perché è un momento di aggregazione e contaminazione per un’industria, quella musicale, che non ha così tanti appuntamenti durante l’anno. L’altro momento in cui mi capitava di vedere più facce era Sanremo. Ma Sanremo si porta a casa solo una piccola parte dell’industria musicale italiana. Creare una Week a Milano sembra una cosa di moda, ma Milano è l’epicentro della musica in Italia, quindi è normale creare un evento del genere proprio lì.
Quest’anno il fatto di avere una prima vera importante sponsorship esterna – quella di UniCredit – è un segnale importante sulla sostenibilità dell’iniziativa. Quando il socio fondatore inizia a farsi da parte con il proprio impegno economico, vuol dire che quell’iniziativa è stata giudicata interessante dal mercato. Vuol dire anche che c’era la mancanza di qualcosa che siamo andati a colmare.
Uno dei grandi temi di questa edizione è quello dell’internazionalizzazione della musica italiana. Tu come leggi il dato relativo al quasi raddoppio dell’export musicale italiano nel 2021 sul 2020?
Le prospettive sono interessanti. A livello globale l’italianità, il Made in Italy, è sicuramente percepita come un valore. Il tema è che sulla musica forse non avevamo saputo creare il prodotto giusto da esportare. Se esporti solo contenuto in lingua locale, la probabilità di farlo arrivare in altri paesi c’è ma è residuale. I Måneskin stessi i più grandi risultati li hanno raggiunti con le canzoni in inglese.
L’investimento di SIAE su Italia Music Export è anche questo: da un lato ci deve essere il prodotto giusto di per sé, dall’altro bisogna sostenere l’internazionalizzazione, anche aiutando gli artisti a capire come funzionano quelle dinamiche. I Måneskin sono un esempio di quello che si può fare. La globalizzazione da una parte ci può mangiare, dall’altra è una grande opportunità.
Fra italiani residenti in Italia (59 milioni), expat registrati all’AIRE (5.8 milioni), italofoni non madrelingua (almeno 5 milioni), discendenti della diaspora (60-80 milioni) e “italofili” (convenzionalmente stimati in 250 milioni), si raggiunge un bacino potenziale di circa 400 milioni di persone nel mondo. Come si raggiunge questo ampio target?
L’italiano ha una sua musicalità come lingua, anche se gli altri non capiscono cosa stai dicendo. Non è l’inglese o lo spagnolo, ma abbiamo una lingua che comunque conta a livello globale. Il punto è che gli stream di Zitti e Buoni dei Måneskin, per esempio, non sono stati generati nemmeno al 50% da italofoni, ma da altri. Quindi è un fenomeno da capire e cavalcare. Se è stato possibile per loro, vuol dire che è possibile in generale.
Non dobbiamo solo consolidare il nostro mercato “captive” (perché se sai l’italiano vuol dire che sei veramente interessato all’Italia) ma pensare a tutti gli altri. Del resto, per generazioni gli italiani hanno cantato canzoni inglesi che non capivano del tutto.
Parliamo di Sanremo. Negli ultimi anni c’è stata una vera e propria rinascita, sia qualitativa che quantitativa. Come si evolve il Festival dal punto di vista di SIAE?
Sanremo si è riallineato ai gusti musicali della popolazione italiana. Se fai una scelta editoriale che però non è condivisa a livello di ascolti, è un problema: vuol dire che la gente non è stata minimamente influenzata dall’unico evento musicale davvero importante che abbiamo in Italia.
Nel momento in cui ti riallinei al gusto musicale della tua epoca, intanto ti vai a riprendere il mercato italiano. E comunque nel giro di un anno abbiamo creato il fenomeno Måneskin, che nasce appunto a Sanremo. Il Festival ha saputo anche eleggere un “campione” della nazione che è riuscito a esplodere a livello globale. Ovviamente è un fenomeno che non capita tutti gli anni, però intanto ci siamo arrivati. Abbiamo capito quali sono le regole del gioco per portare il gladiatore dalla provincia dell’impero al Colosseo.
Parlando invece di scenari futuribili, quali sfide e quali opportunità offrono le nuove tecnologie legate alle economie digitali, per esempio NFT e concerti nel metaverso?
SIAE è stata fondata nel 1882, quando non esisteva neanche la radio. L’evoluzione tecnologica è nella natura di come funziona l’industria musicale: SIAE te la può raccontare tutta. Quello che stiamo vedendo sono dei cambiamenti tecnologici che stanno diventando sempre più veloci. Una volta i cambiamenti richiedevano almeno una generazione per consolidarsi. Oggi no: il download musicale ha fatto in tempo a nascere e morire all’interno di una singola generazione.
Bisogna prima di tutto conoscere e capire i nuovi modelli di business, legati per esempio ai social. Tutto questo genera valore nel tempo, anche perché ci ha permesso di uscire dagli anni bui della pirateria. Nonostante tutto, Spotify e YouTube hanno permesso di uscire da quel mercato e offrono nuove prospettive. Bisogna evitare però la concentrazione del mercato nelle mani di pochi, portando il valore nelle mani di chi quel valore lo crea.
Il “value gap” (termine con cui si intendono, a seconda del contesto, varie forme di sproporzione fra gli introiti delle piattaforme e i compensi di autori e artisti, ndr) è generato da un “information gap”, ovvero disinformazione sui modelli di business delle piattaforme: occorre condividere quelle informazioni per rendere il mercato più trasparente per tutti e sapere su cosa andare a negoziare.