Le etichette hanno vinto la battaglia contro la pirateria musicale, ma potrebbero perdere la guerra
“C’è stata una sorprendente inversione di tendenza nello sforzo di limitare l’accesso a musica senza licenza”, dice il ricercatore Russ Crupnick
Settembre segna il ventesimo anniversario dell’avvio di un contenzioso da parte della RIAA contro i consumatori nel tentativo di estinguere – o almeno smorzare – le fiamme del file sharing peer-to-peer (P2P). L’azione faceva parte di uno sforzo su più fronti contro la pirateria musicale che aveva preso di mira i fornitori di servizi internet, i provider P2P come Napster e Limewire e gli appassionati di musica.
L’epoca d’oro della pirateria musicale
All’inizio del 2003 quasi il 40% degli utenti Internet negli Stati Uniti aveva utilizzato un servizio P2P per scaricare musica, ovvero circa 54 milioni di individui. Dopo l’annuncio della RIAA delle cause contro la pirateria musicale, i genitori iniziarono a chiedere ai loro figli cosa stessero facendo con quelle pile di CD vergini. Le notizie sull’azione legale soffocarono la condivisione di file prima ancora che fosse mandato il primo avviso di garanzia.
Molto è stato scritto sull’era del P2P, ma una cosa è certa: la stragrande maggioranza di chi scaricava file all’epoca sapeva che era illegale. Se c’era qualche incertezza nella mente dei consumatori, il contenzioso RIAA ha contribuito a chiarirla. Forse questa è la più grande eredità di quell’azione legale, conclusasi nel 2008.
Nel 2013, dieci anni dopo il contenzioso, le etichette discografiche avevano ampiamente vinto la battaglia contro il file sharing P2P e la pirateria musicale. Dopo la risoluzione del caso di violazione di copyright da parte di Limewire nel maggio 2011, il numero di persone che utilizzano i servizi rimanenti è rapidamente diminuito negli Stati Uniti. Nel 2013 era sceso del 60% rispetto al picco del 2003.
I fattori che hanno portato alla fine del P2P
Il contenzioso è stato uno dei tanti fattori che hanno contribuito a ciò. L’esperienza di condivisione di file P2P era terribile per gli utenti, piena di file contraffatti, popup, malware, file incompleti o errati. I download di iTunes hanno fatto rivivere l’era dei singoli offrendo brani a 0,99 dollari.
Pandora era in cima alle classifiche degli app store da diversi anni e Spotify stava guadagnando slancio. Nel 2013 metà degli utenti di internet in America usavano piattaforme di streaming, e una manciata di essi stava iniziando ad abbonarsi alle versioni premium. La RIAA passò così ad altre battaglie, in particolare quella relativa al “value gap” di YouTube.
L’inversione di tendenza: perché?
Con l’avvicinarsi del ventesimo anniversario del contenzioso si è verificata una sorprendente inversione di rotta nella guerra per limitare l’accesso dei consumatori alla musica senza licenza e alla pirateria musicale.
Secondo una ricerca di MusicWatch, circa 55 milioni di persone negli Stati Uniti hanno acquistato o avuto accesso a file musicali “gratuiti” nell’ultimo anno, la stessa cifra del 2003. Cosa è andato storto?
Esistono numerose app e siti che consentono ai consumatori di ottenere musica senza licenza. Le app che consentono il ripping dello streaming di YouTube sono ampiamente disponibili. Le app disponibili con “download gratuiti” spesso contengono contenuti senza licenza. Anche le stesse piattaforme social su cui l’industria fa affidamento per promuovere gli artisti ospitano contenuti senza licenza.
A differenza dell’era P2P, la legge è chiara quando si tratta di queste forme di violazione del copyright e dei requisiti di licenza, sebbene il Digital Millennium Copyright Act fornisca ancora uno scudo ai servizi che si basano sui contenuti caricati dai fan.
L’atteggiamento degli utenti
Il problema è il consumatore. L’adolescente che sapeva di commettere pirateria mentre scaricava In Utero da Limewire è ora adulto. Oggi possono essere facilmente confusi. Le loro ricerche musicali su Google potrebbero includere contenuti che violano il copyright. Lo stesso vale per l’app store sul loro telefono.
La recente ondata di live streaming del tour di Taylor Swift su TikTok, sebbene tecnicamente sia una cosa analoga a un rip di Cruel Summer, non è vista dai fan come pirateria musicale. Oltre ai contenuti senza licenza, gli studi di MusicWatch indicano che 20 milioni di utenti di streaming condividono gli accessi alle piattaforme con altre persone.
L’industria musicale non è rimasta in silenzio. La RIAA ha intentato causa contro i ripper. L’app Mixtape Spinrilla è stata denunciata, con successo, per violazione ed è stata chiusa a maggio. Sony e Universal hanno appena fatto causa a Internet Archive per violazione del copyright. Come alternativa, le piattaforme di streaming offrono piani familiari, che aumentano l’ARPU (“average revenue per user”, ndt) e attenuano l’impatto della condivisione non autorizzata dell’account.
Una nuova battaglia contro la pirateria musicale
A differenza del 2003, tuttavia, l’industria non presta molta attenzione al consumatore che commette violazioni. E perché dovrebbe? Non c’è stato un crollo dei ricavi come si è verificato negli anni Duemila. La maggior parte dei consumatori che commettono violazioni sono streamer attivi. Molti pagano un abbonamento streaming e magari comprano dischi in vinile.
Non ci sono molti motivi per prendere di mira gli appassionati di musica. Ma ciò non significa che non si dovrebbe fare di più per educare i consumatori e proteggere ulteriormente i diritti degli artisti e dei detentori dei diritti d’autore.
Articolo di Russ Crupnick, direttore di MusicWatch