Italians dance it better: la gloriosa storia della musica elettronica nel Bel Paese
L’Italia, con i suoi DJ e producer, sin dalla fine degli anni ’70 ha saputo tradurre le originarie invenzioni sonore americane in ambito dance, creando un mercato discografico di successo
Elegante terrazza vista Duomo di Milano, estate 2022. Una crew televisiva britannica si sta sciogliendo nell’afa filmando l’episodio finale di un documentario/viaggio in Italia. Abbondano gli stereotipi italiani più classici, ma gli inglesi mi hanno chiamato per dedicare qualche minuto anche alla storia della musica elettronica del nostro Paese. Sul finale una piccola orchestra attacca un medley tutto italiano. Classica, lirica, Nel Blu Dipinto di Blu, Vieni Via con Me. Per chiudere con una sequenza in acustico di Satisfaction (Benny Benassi), L’amour Toujours (Gigi D’Agostino), Blue (Eiffel 65).
Chi conosce davvero la storia della musica leggera non si stupisce che tre delle melodie dance tra le più famose di sempre siano italiane. Certo, quasi tutta l’Europa ha contribuito al successo di questi suoni. Il French touch (dai Daft Punk in giù), il filo rosso tedesco che parte dai Kraftwerk e arriva al Berghain, la nu-disco pop dalla Scandinavia… Ma sono senza dubbio la Gran Bretagna e l’Italia i Paesi che dagli anni ’70, senza pause, sono stati protagonisti della scena dance elettronica.
La discomania
Metà anni ’70: discomania. All’inizio i dischi arrivano solo dall’America, ma un legame con oltreoceano sembra essere naturale leggendo i nomi dei pionieri della disco made in USA. Dal DJ David Mancuso al giornalista Vince Aletti (il primo a parlare di disco sulle riviste rock).
E poi c’è lui: “My name is Giorgio”, Giorgio Moroder. Re Mida della disco grazie al suo innovativo studio Musicland a Monaco di Baviera, con il suo complice inglese Pete Bellotte riscrive il sound grazie all’utilizzo dell’elettronica e in Donna Summer trova il B-52 da cui sganciare una serie di bombe. Con I Feel Love nel 1977 radono al suolo il pop precedente. Moroder scrive il manuale di una dance sexy e robotica che rimane ancora oggi libretto d’istruzioni per techno, trance, pop dance.
Non solo Moroder
L’Italia all’apice della “disco fever” non è solo Moroder. Il francese della Guadalupa Jacques Fred Petrus, uomo dalla storia che sembra un romanzo, arriva dietro ai mixer di Milano. Apre un negozio di dischi di importazione, Goody Music, e pensa che il futuro debba passare da produzioni autoctone.
Pesca Mauro Malavasi. Con l’alias Macho e la cover di I’m a Man Malavasi arriva in testa alle classifiche USA e non si ferma più. Forma la Peter Jacques Band, i Revanche e rivitalizzando la Ritchie Family. Il capolavoro Malavasi lo fa fondando i Change: incide a New York con cantanti black e americani (fra cui Luther Vandross), disegnando quel suono raffinato e soulful che verrà chiamato boogie.
A Milano ci sono anche Freddy Naggiar e la sua Baby Records, che lancia i fratelli siculo-meneghini La Bionda, autori di clamorose hit. A Roma ci sono i fratelli Micioni, Giancarlo Meo e Claudio Simonetti (sì, proprio lui dei Goblin di Profondo Rosso).
La Baia degli Angeli
Il luogo più iconico di quella fase è La Baia degli Angeli, il primo mito della Riviera Adriatica che non dorme mai. Oltre allo spettacolare design, rimane nella storia perché sulle tre piste e due piscine risuonano solo disco e funk grazie ai DJ newyorchesi Bob Day e Tom Sison che lasciarono consolle e consigli tecnici ai giovani Daniele Baldelli e “Moz-Art” Rispoli.
Finita la mania della disco primogenita, proprio loro due furono gli alfieri nel creare (insieme a un pugno di altri nomi come Beppe Loda, Rubens, TBC, Ebreo…) il movimento Afro (poi rinominato Cosmic), una vera e propria sottocultura giovanile clubbing italica e avanguardista. Opposta ai “travoltini” (i ballerini del sabato sera più interessati all’apparire), farà scoprire musica di livello nelle cattedrali dai nomi esotici come Cosmic, Typhoon, Chicago, Melody Mecca.
La musica elettronica italiana nei primi anni ‘80
In quella prima metà degli anni ’80 l’industria discografica dance elettronica si sposta in Europa e l’Italia è uno dei centri produttivi.
La cosiddetta italo-discoha tutti i pregi e i difetti di una certa italianità che a volte predilige qualche scorciatoia, ma non c’è al mondo un DJ di quegli anni che non citi quei dischi come radici importanti. Cai fondatori della house music di Chicago ai padrini della techno di Detroit, passando per produttori come Arthur Baker (quello di Blue Monday dei New Order, con quel riff di basso rubato alla nostrana Dirty Talk di Klein & MBO). Bassi sintetici arpeggiati, appoggi armonici “spaziali”, drum machine in primo piano, vocalismi in inglese.
Rimangono una manciata di capolavori (e tanto ciarpame). Dal lato più new wave di Alexander Robotnick, Gaz Nevada, i vari alias di Rago e Farina, alle intuizioni più pop-soul con Kano, Valerie Dore, Vivien Vee e sfilze di singoli da producer solidi come Mario Boncaldo, Casco, il team Meo e Simonetti, i Micioni, Cavalieri e alias come Capricorn, Charlie, Koto, Firefly, Ken Laszlo. In ultimo arriverà anche la versione pop da classifica: Raf, Gazebo, Spagna, Sandy Marton…
La house e la techno
L’America serve la disco all’Italia, noi rimandiamo con un pallonetto l’italo-disco oltreoceano e da Chicago e Detroit ci tirano indietro uno smash: la house e la techno. I primi DJ house italiani sono stati Ricky Montanari, Flavio Vecchi, Massimino Lippoli, Leo Mas (già in consolle all’Amnesia di Ibiza nei decisivi anni della cultura Balearic di metà anni ’80).
La Media Records a Brescia diventa una macchina da hit, partendo con Cappella e passando per 49ers e Clubhouse. Arriva la stilosa house dei Sueño Latino, che apre la porta ad una deep nostrana che avrà grande riscontro nei primi ’90.
I Black Box di Daniele Davoli campionano la vecchia disco. Partendo dalla Disco Magic di via Mecenate a Milano vanno alla #1 delle chart di svariati paesi. Rimangono in testa nel Regno Unito per sei settimane, risultando il singolo più venduto del 1989. Seguiranno gli FPI Project, i Livin’ Joy, Double Dee (sempre Moz-Art), e si parla di una “spaghetti house” dal pianoforte come elemento trainante.
La musica elettronica italiana nei primi anni ‘90
Nei primi ‘90 arriva una divisione fra house più black (che qui chiamiamo underground e garage) e una linea techno-trance (rinominata progressive). Da un lato DJ star come Claudio Coccoluto (nato al seguito del leggendario Marco Trani nella Roma degli ’80), Ralf, Joe T Vannelli, dall’altro lo squadrone toscano con Francesco Farfa, Mario Più, Ricky Le Roy.
Deejay Time con Albertino su Radio Deejay per tutti gli anni ’90 spinge le hit commerciali dei vari generi di elettronica e risulta la più ascoltata dai giovani. Arrivano così i successi di Corona, Gigi D’Agostino, Gala (Freed from Desire ritornata ad essere la più ballata nei club degli ultimi tempi), Tamperer, Mauro Picotto, Eiffel 65, il compianto Robert Miles di Children.
Tutte hanno una chiave molto pop a cui risponde una cultura DJing e clubbing senza concessioni esageratamente commerciali. Claudio Coccoluto con l’alias The Heartist sforna Belo Horizonte riprendendo un samba fusion che ascoltava nelle vecchie cassette di Baldelli. Spiller ritaglia dei segmenti della disco di Vince Montana e con Groovejet trova il singolo più venduto al mondo del 2000. Vannelli si ispira a un sound newyorkese che lo porta nelle posizioni alte in UK e USA, a cui seguiranno nella scia classic house Bini & Martini, Pastaboys e molti altri.
Le scene in giro per l’Italia
Negli impetuosi anni ’90 sorgono intere sottoculture che guardano alla cultura musicale. La Irma di Bologna e la Right Tempo di Milano (poi Schema) intraprendono la strada dell’acid jazz, trip hop, nu-funk e dintorni tirando fuori i Jestofunk (ancora Moz-Art Rispoli), Nicola Conte, The Dining Rooms, e ristampando intere collezioni dei maestri dell’easy listening anni ’60 come Piero Umiliani, Armando Trovajoli e Piero Piccioni, restaurando un sound italico da Dolce Vita.
Nello stesso periodo nel giro alternativo europeo si parla di Neapolitan techno, grazie all’inventiva di Marco Carola, Gaetano Parisio, Rino Cerrone (e poi Davide Squillace, Danilo Vigorito, Markantonio, per arrivare fino a Joseph Capriati).
Sempre in uno studio di Napoli diventa mondiale il progetto Planet Funk, che nei primi 2000 scrive una via italiana alla “electronica” non prettamente dance. Ascrivo a questa tendenza le hit dell’epoca di Stylophonic (nome d’arte del DJ Stefano Fontana), i progetti di Sergione Casu (Par-T-One e 3rd Face), Dino Lenny e Benny Benassi, producer e DJ di Reggio Emilia che con il riff di Satisfaction fa la storia e prelude all’ondata EDM americana.
La musica elettronica italiana nel nuovo millennio
Nei secondi anni Duemila a Milano esplode la fidget-house con i Crookers, nel 2008 esce quella mina di Day ‘n’ Nite con Kid Cudi. Poi i Bloody Beetroots arrivano con il loro filone più rockeggiante a collaborare con Paul McCartney. I Reset! lavorano con Cassius, Congorock remixa i Swedish House Mafia e Mark Ronson.
È contemporaneo il boom della Berlino tutta vestita di nero e degli after ibizenchi (come il mitico Circoloco del DC10, organizzato da italiani). Alcuni dei nostri artisti techno diventano superstar DJ, su tutti Marco Carola e Joseph Capriati, mattatori dei più grandi festival del mondo, e nuovi giovani come Ilario Alicante, Tale Of Us, la label Life and Death e altri come Massi DL e Lucio Aquilina che ci portano all’attualità. Sono loro due le menti dietro Nu Genea, simbolo odierno di un funk mediterraneo dal sapore anni ’70 (sempre sulla stessa scia partenopea, Periodica Records e Futuribile).
Oggi non manca altro revival post disco nei Marvin & Guy e nei Tiger & Woods (di nuovo Passarani). I Tale Of Us con Afterlife hanno creato un mega show di audiovisual (portando alla fama altri italiani come Mind Against, Mathame e Fideles).
Adiel, Anfisa Letyago e Giorgia Angiuli sono fra le donne più richieste nel mondo dei grandi stage e anche eccellenti producer. Sulla dance elettronica da classifica, a posto tanto in radio che in TV o su un palco, è arrivato il progetto milanese dei Meduza con i suoi miliardi di stream, a coprire il buco lasciato dall’EDM e quel lato ancora non hanno abdicato Merk & Kremont.
Erede del mondo fidget, quest’anno scopriremo anche il nuovo album di Bawrut, fra l’altro autore di basi per Liberato. Dirty Channels e Souldynamic sono saldi sul colosso Defected. La label afro house più consistente si chiama MoBlack ed è a Napoli. Mentre sul fronte più sperimentale non possiamo dimenticarci che Lorenzo Senni è di casa alla leggendaria Warp e Caterina Barbieri ed Elena Colombi sono di casa sui palchi più ricercati d’Europa.
Lele Sacchi è DJ, promoter, produttore, conduttore radiofonico. In consolle dal 1995. Questo articolo è dedicato a Claudio Coccoluto: da due anni se n’è andato lasciandoci lezioni che rimarranno per sempre.