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Il successo dell’afrobeats sul dancefloor è anche il segno di una nuova afro-italianità

Il genere sta facendo impazzire uno spettro di pubblico sempre più ampio. Per questo abbiamo chiesto un racconto in prima persona di Nina Kipiani, una delle maggiori esponenti del fenomeno

Autore Tommaso Toma
  • Il21 Febbraio 2024
Il successo dell’afrobeats sul dancefloor è anche il segno di una nuova afro-italianità

Nina Kipiani (foto di Michael Yohanes)

Non c’è bisogno neanche di scommetterci sopra: il fenomeno afrobeats è ormai deflagrato in tutta la sua magnificenza. La nuova musica africana punta al ballo e alle classifiche e, se qualcuno pensa che sarà un fenomeno passeggero, si sbaglia. Perché nel corso di un quinquennio è cresciuta lentamente ma progressivamente una scena musicale che solo adesso sta dando i suoi frutti a livello globale. Basta dare un occhio ai dati riportati da Spotify, che ha fatto sapere che dal 2017 gli ascoltatori di musica africana sono cresciuti del 550% nel mondo.

L’afrobeats è il nuovo mainstream

Parliamo di un fenomeno autenticamente accolto dal pubblico. Si capisce anche dal fatto che sempre più giovani scelgono di imparare i giusti movimenti del ballo afrobeats, riempiendo i corsi dedicati al genere nelle scuole di danza in Italia.

In questo articolo cerchiamo di fare una breve storia del genere ma anche di come una certa cultura musicale africana più legata alla poliritmia e alla capacità di contaminarsi di venature caraibiche si sia evoluta nei decenni. Infine, in calce all’articolo, leggerete un contributo in esclusiva di Nina Kipiani, ambassador di Sony Music Italy e curatrice della playlist Afroteque.

Un po’ di storia, da Fela Kuti ai Kokoko!

Dobbiamo risalire addirittura agli anni ’60, quando esordì sulla scena musicale londinese il sassofonista, pianista e cantante Fela Anikulapo Kuti, coniando un nuovo stile di musica che combinava la musica funk di James Brown, l’highlife e il jazz.

Era proprio l’inizio del genere afrobeat, che si reggeva su una ricchezza di ritmi grazie all’infaticabile lavoro dello spettacolare batterista Tony Allen, che è sempre stato al fianco di Fela Kuti e morì di AIDS nel 1997.

Ricordiamo anche che il regista italiano Daniele Vicari farà uscire il 21 marzo il suo interessante docufilm Fela, il mio Dio vivente, che è anche in gara per il David di Donatello e i Nastri d’Argento 2024.

Tra quegli esordi anni ’60 e la dipartita del grande performer nigeriano, il genere a cui aveva dato vita divenne un propellente per moltissimi artisti africani e occidentali. A partire negli anni ’80, da Peter Gabriel – da sempre attratto dall’“ombelico del mondo” o da quello che con attitudine da ex colonialisti gli inglesi definivano “world music” – a David Byrne con i suoi Talking Heads.

L’esplosione del genere anche nei club la si deve all’effervescente scena house di metà anni ’90 grazie a DJ come il francese Frederic Galliano o l’inglese Gilles Peterson.

Il fenomeno afrobeat è rintracciabile anche nei primi anni del nuovo millennio grazie ai congolesi Konono n.1, che avevano stupito stampa e pubblico grazie all’incontro di incredibili strumenti giocattolo con i nuovi beat elettronici. Mentre da Kinshasa esplodevano i Kokoko! e il collettivo Fulu Miziki.

Afrobeats - Afroteque - Fela Kuti, in un'immagine dal docufilm di Daniele Vicari
Fela Kuti in un’immagine dal docufilm di Daniele Vicari

Il nuovo decennio è il momento della svolta afrobeats

Qualcosa di eccezionale è successo a partire dal 2020. La Official Charts Company, l’organizzazione britannica che si occupa delle classifiche musicali, nel giugno 2020 ha inserto una nuova categoria: UK Afrobeats Singles Chart, ovvero la classifica dei singoli di maggior successo di genere Afrobeats (notare la “s” finale).

E poi i Gorillaz uscivano con un singolo assieme a Fatoumata Diawara, mentre Thom Yorke esordiva con un nuovo trio, The Smile, insieme a Jonny Greenwood e al batterista Tom Skinner dei Sons Of Kemet.

Ma il genere afrobeats diventa popolarissimo soprattutto grazie ad artisti come Wizkid, Burna Boy e la sorprendente 22enne sudafricana Tyla. Quest’ultima ha appena ricevuto i suo primo Grammy Award dedicato esclusivamente alla musica del continente africano, l’African Music Performance Award, per la sua canzone Water, il singolo principale del suo omonimo album di debutto in studio definito simpaticamente da Tyla “popiano”, una crasi tra il termine pop e amapiano, un sottogenere sudafricano della musica house che sta emergendo sempre di più.

E in Italia cosa sta accadendo?

L’humus culturale creato dalla presenza dei migranti arrivati dall’Africa ha innescato un interessante ed effervescente scenario musicale. Soprattutto nelle dancehall, in cui sono nati tempo fa molti progetti. Dalla Sicilia con Ray Jeezy (che dalla Nigeria ha raggiunto la Sicilia attraversando il deserto del Sahara e imbarcandosi illegalmente in Libia), Brenex Baba e Thug Money, a Napoli, dove da tempo proliferano one nite a base di afrobeats. Salendo verso nord non dimentichiamoci che qualche anno fa si era fatto notare il bresciano Tommy Kuti.

Stiamo oggi assistendo a un interesse sempre più forte anche da parte delle major in Italia. Prova ne è che di recente Sony Music Italy, in sinergia con Soul Food Promotion, ha fatto nascere Afroteque, un progetto di esplorazione della musica africana contemporanea.

Manuel Nicoli, Head of International Frontline di Sony (la major che peraltro pubblicherà l’attesissimo album di debutto di Tyla), ci ha concesso di interpellare in esclusiva una delle punte di diamante del progetto, ovvero la DJ Nina Kipiani, che ci racconta questa sua nuova avventura ma anche la storia dei suoi inizi, che è un buon esempio per capire da quale humus sia nato il fenomeno sempre più eccitante e pervasivo della musica afrobeats nelle piste da ballo, non solo qui in Italia ma in tutto il pianeta.

Afrobeats - Afroteque - immagine dalle serate afrobeats
Una serata afrobeats

La storia di Nina Kipiani, ambassador di Afroteque

Fin da bambina la musica è sempre stata presente nella mia vita. In primis grazie ai miei genitori: mia madre ascoltava e mi faceva ascoltare musica africana (rumba congolese, ndombolo e makossa), mentre mio padre ascoltava e mi faceva ascoltare artisti come Prince, Barry White, Bob Marley e Ray Charles. L’altra protagonista indiscussa è stata sicuramente la danza, passione che ho sviluppato dai sei ai vent’anni.

Crescendo ho iniziato a lavorare a Parigi nella moda. Dopo circa dieci anni ho abbandonato questo campo per intraprendere il mio percorso professionale da DJ. Oltre al bagaglio culturale (sono figlia di una coppia mista), per la mia formazione sono stati fondamentali i moltissimi viaggi in vari paesi del mondo. Mi hanno dato modo di conoscere un sacco di sonorità, facendomi spaziare nella “musica ancestrale” a 360 gradi.

Trasferitami da Parigi a Roma, quando ho iniziato a suonare in Italia non è stato facile. Mi chiamavano per suonare afrobeats ma il pubblico non era ancora pronto. Per non far scendere la pista ero obbligata a suonare club bangers di musica urbana commerciale (reggaeton e/o trap). Mi dava una grossissima frustrazione.

Nel giro di poco però avevo capito che stavo avendo la fortuna di poter contribuire a far sviluppare in Italia l’afrobeats e l’amapiano. Pur sapendo le difficoltà nel promuovere un nuovo genere musicale in club mainstream. Difficoltà a parte, mi sono focalizzata su quella che era diventata la mia “missione”. Ossia rendere questi due generi commerciali e riuscire a far ballare la gente abituata ad ascoltare tutt’altro.

Proprio con questo spirito ho accettato di far parte del progetto Afroteque, promosso da Sony Music Italy e Soul Food Promotions in collaborazione con EssereNero. Vuole dare un’ufficialità a un trend che finalmente anche in Italia si sta prendendo il suo spazio e sta entrando nei circuiti dell’entertainment mainstream.

Dovendo fare un raffronto tra la mia prima stagione da DJ in Italia e quest’ultima non ci sono paragoni. Il pubblico è più ricettivo ai ritmi afro e finalmente inizia a conoscere le canzoni che seleziono.

A Roma, oltre a DJ set non scadenzati in vari club, ho due residenze settimanali. Il giovedì al Room26 (Milkshake Party) e il sabato al Qube Club (Evolution Party). Il primo ha un taglio molto commerciale e da questa stagione si è aperto alle sonorità afro. Il secondo ha tre sale, di cui una dedicata interamente all’afrobeats e all’amapiano.

Grazie alle scelte strategico-artistiche dell’organizzatore Serge Itela, in questi anni Roma è riuscita ad essere sempre all’avanguardia per quanto riguarda le nuove sonorità da promuovere e da includere in format più commerciali. Questo ha permesso di far conoscere afrobeats e amapiano anche a un pubblico che nulla aveva a che vedere con questo tipo di sonorità. La presenza sul territorio di afro-italiani, delle ambasciate africane e delle sedi di organismi come la F.A.O. ha dato involontariamente un grosso aiuto.

Oltre a Roma, Milano è la città in cui afrobeats e amapiano sono riusciti a imporsi maggiormente e in maniera trasversale. Ciò è anche dovuto alla grossa presenza di giovani afro-italiani e al ruolo che la moda sta giocando. Sarà da tenere d’occhio sicuramente anche Napoli. A mio avviso, ha uno dei migliori party afro della penisola a cadenza settimanale (“Lit”).

Suonare afrobeats e amapiano per me significa condividere l’amore per la mia musica e il legame con le mie origini. Sonorità con cui sono cresciuta e, in qualche modo, sono parte del mio DNA. Per noi afro-discendenti questa musica rappresenta una vera e propria connessione con il nostro heritage, con le nostre gioie e con i nostri dolori. È parte della nostra identità a tutti gli effetti e sicuramente è un ottimo strumento per costruire ponti tra i paesi d’origine e la diaspora.

A differenza di paesi come la Francia o l’Inghilterra, qui in Italia siamo solo alla seconda o terza generazione di afro-discendenti. In Italia, questo “afro mood” è culturalmente qualcosa di nuovo.

Quando suono pezzi afro un po’ datati, ad esempio, vedo negli occhi del pubblico afro-italiano quasi una sorta di ringraziamento. Perché magari erano canzoni che avevano sentito a casa e mai avrebbero pensato di sentirle in una serata club commerciale. È come se la diffusione della musica afro sul territorio italiano fosse una sorta di legittimazione della “afro-italianità” che piano piano inizia a farsi sentire.

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