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Domenica alternativa

“Hadsel” di Beirut ci dimostra che anche le cose più luminose possono nascere dal buio

Il sesto album del progetto discografico di Zach Condon è una raccolta di brani salvifici e rigeneranti scritti con un organo da chiesa tra il 2019 e il 2020, durante un periodo difficile passato in Norvegia. Un disco ideale per passare una domenica alternativa

Autore Samuele Valori
  • Il12 Novembre 2023
“Hadsel” di Beirut ci dimostra che anche le cose più luminose possono nascere dal buio

Foto di Lina Gaißer

Negli ultimi tre anni si è assistito al proliferare di album scritti durante il lockdown, dischi spesso cupi, contorti e figli di un periodo che ha messo a dura prova la salute mentale degli artisti: Hadsel, l’ultimo lavoro di Beirut, pur essendo nato nello stesso contesto, ha un’anima opposta. Zach Condon l’ha cominciato a scrivere addirittura nel 2019, ma la gestazione è durata fino alla fine della pandemia. La scintilla ispiratrice non è stata l’isolamento, ma dei gravi problemi alla gola che, dopo il tour dell’album Gallipoli, l’hanno costretto a rimandare le session del nuovo progetto discografico.

Tutto ha origine nel momento in cui Zach Condon inizia ad avere paura di non potersi più esibire dal vivo e decide di partire per la Norvegia. Nella piccola isola di Hadsel – che ha dato il titolo al disco – nel pieno del Circolo Polare Artico, il musicista incontra Oddvar, un collezionista e appassionato di organi. Proprio quest’ultimo gli apre le porte della chiesa ottagonale, risalente al 1800, che compare stilizzata sulla copertina dell’album. Lì c’è la matrice di tutto.

L’organo è il vero protagonista di Hadsel ed è anche il primo strumento che si ascolta nell’omonima traccia di apertura. Beirut non ne aveva mai suonato uno prima di allora e questo rende spontaneo il suo approccio: arpeggi assenti, ma accordi e tappeti sonori che uniscono le dodici tracce. Il testo dell’opening track è il prologo ideale di un disco che è nato nel buio della notte, oltre che in quello dell’anima. In quelle notti fredde e nevose, ispirato dall’inedito ambiente circostante e dall’aurora boreale, Zach ha dato una prima forma alle canzoni, ideando anche i primi arrangiamenti di tromba e utilizzando i sintetizzatori modulari.

Beirut Hadsel Zach Condon
La cover di “Hadsel”

Beirut, Hadsel è un disco geografico

Hadsel è un lavoro fortemente influenzato dai luoghi in cui è stato composto, d’altronde è sempre stato così per Beirut. Da Gulag Orkestar fino a Gallipoli, la sua discografia traccia un’ideale mappa della sua esistenza. Island Life, con il suono di sottofondo dell’organo sovrastato dalla chitarra e dal ritmo di drum machine, trasmette le sensazioni invernali provate da Zach in Norvegia. Stesso discorso vale per la più elettronica Spillhaugen in cui il suono dell’antico strumento da chiesa viene distorto e abbinato a quello dei synth.

Il concetto di album geografico acquista ancora più senso se si osserva l’intero percorso di produzione del disco. Beirut, dopo la sua permanenza nell’estremo nord norvegese, è tornato nella sua casa di Berlino nel pieno della pandemia di Covid-19. Complice il lockdown, ha avuto modo di rielaborare e perfezionare gli schizzi organistici e testuali realizzati in precedenza. So Many Plans, uno dei singoli estratti dall’album, è stato per esempio ripensato a partire da un vecchio synth della Roland e una drum machine, a cui sono stati aggiunti i frammenti di organo da chiesa e gli ottoni. In questo brano, come in altri della tracklist, Zach Condon si è cimentato anche con l’ukulele baritono che contribuisce al tono leggero e rilassante.

Un’altra presenza costante in molti brani è quella delle percussioni manuali. Beirut durante i quasi cinquanta minuti di Hadsel alterna varie tipologie: si passa dai tamburi costruiti in Norvegia, ai bonghi fino agli shaker. A seconda del brano cambia il modo in cui vengono percepiti da chi ascolta. In Arctic Forest, per esempio, generano un’atmosfera legnosa che fa il paio con il cantato indistinguibile e coristico di Zach Condon. Invece, in un brano più elettronico come 18th January, contribuiscono al crescendo della traccia.  

Foto di Lina Gaißer

I testi

Il paradosso di Hadsel di Beirut- che ne rappresenta allo stesso tempo il punto di forza – è la capacità di essere allo stesso tempo un disco ambient e un disco cantautorale. Si alternano brani prettamente strumentali, altri in cui il cantato è incomprensibile e imita quello dei cori di chiesa e altri ancora dove invece le parole sono chiarissime. L’album è nato da un periodo in cui Zach Condon ha lavorato come in trance sulla musica, «inciampando ciecamente nel collasso mentale» che aveva messo da parte fin da quando era adolescente. Da questo deriva il testo colmo di sofferenza di Baion, o quello fortemente influenzato dal lockdown di So Many Plans.

We had so many plans / We had so many friends

Nella maggior parte dei brani i versi creano un collegamento tra ambiente esteriore e interiore. La natura, sotto forma di pioggia e neve, può diventare il correlativo oggettivo dei sentimenti provati, oppure rappresentare un’ultima speranza a cui aggrapparsi. Condon descrive le notti in Hadsel, i boschi in Arctic Forest e un ritratto distante della città, disegnato grazie ai ricordi nostalgici, in Island Life.

Stockmarknes è la canzone centrale del disco, quella che meglio integra tutte le caratteristiche dell’album. Gli accordi, che all’inizio di Hadsel erano suonati con l’organo, sono suonati dai synth e accompagnati dalla drum machine. Gli ottoni subentrano insieme agli shaker dopo il ritornello creando un effetto melanconico. Poi, a corredo, uno dei testi più intimi e personali del disco. «The room is so old / I’ve been here before / I’m empty / I am full / who knows what we’re here for» canta Zach descrivendo le stanze della sua mente.

La catarsi del finale

Dalla decima traccia Süddeutsches Ton-Bild-Studio inizia la trilogia conclusiva dell’album. Un finale in crescendo che rappresenta un disco nel disco. La rinascita spirituale di Beirut e dell’ascoltatore parte dall’ukulele e dai suoni elettronici che simulano lo scioglimento del ghiaccio. Il brano numero dieci non solo ha il titolo più lungo e impronunciabile, ma è anche quello con il minutaggio più alto. Merito della stupenda coda sintetica – dove sembra di ascoltare anche il rumore della pioggia – che anticipa e si lega stupendamente a The Tern.

It’s not too late to find what you are

«Non è mai troppo tardi per capire chi sei» canta Beirut nella penultima canzone di Hadsel. Un inno costruito sul suono di un organo di chiesa elettrificato che evolve e cresce: entrano le percussioni a mano che si combinano alla perfezione con quelle della drum. Zach Condon dà vita a una ballad atipica che fa oscillare per tutto il tempo l’animo di chi ascolta. Alla fine è la speranza a trionfare sulla tristezza.

Lo confermano anche gli ottoni, il piano e l’organo che aprono l’ultima canzone Regulatory. Si ritrovano tutti gli strumenti che hanno popolato il disco, compreso l’ukulele baritono. Dopo essersi perso nella mezzanotte, Beirut è pronto a ricominciare dagli stessi accordi di organo e dal mondo prima della Norvegia. La vecchia vita ricomincia con tutte le sue bellezze, le sue storture e le sue menzogne. Tuttavia, dopo un album come Hadsel, Zach Condon e tutti coloro che hanno compiuto con lui questo viaggio spirituale, potranno affrontarla rinnovati e alleggeriti nell’anima.

Ascolta Hadsel di Beirut

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