Nell’autobiografia di Cher c’è tanta povertà, patriarcato e resilienza: un estratto in esclusiva
Il libro di memorie cella cantante francese è uscito lo scorso 19 novembre. Nel 2025 è prevista una seconda parte
Se vi piacciono le autobiografie senza fronzoli e autocelebrazioni più o meno velate, ecco questa Parte Prima, di ben 550 pagine, dove Cher ci racconta senza veli e tanta ironia, la sua parte di vita privata e pubblica. Partendo dalla tribolata esistenza dei suoi avi e dalla bisnonna da parte di madre con origini Cherokee. La donna aveva cresciuto i suoi figli in una baita di tronchi nei boschi del Missouri. Poi si prosegue nella difficile primissima parte della sua infanzia – quasi dickensiana – tra povertà, tentate molestie, cambi di città e di papà.
Una vita segnata però dalla grande forza e resilienza prima di sua madre e poi di lei stessa. Lo capirete benissimo leggendo questo estratto. Si racconta soprattutto il giorno in cui sua madre Jackie Jean Crouch (in seguito Georgia Holt), evitò un appuntamento per l’aborto, proprio della futura Cher all’anagrafe Cheryl. Ricordiamo che il padre biologico di Cher era armeno e rubava, giocava d’azzardo e sarebbe diventato un eroinomane. Una volta tentò di uccidere con il gas Cher e suo fratello mentre dormivano!
Lo show business nel sangue di Cher (eredità materna)
Nella Parte Prima di questa appassionante autobiografia (la seconda parte arriverà entro la fine del 2025) leggerete però anche il cambiamento in meglio della vita di Cher. Una prima parte dell’esistenza caratterizzata da continui spostamenti (Pennsylvania, Texas, California, New York). Poi sua madre, da sempre dotata di un gran talento nella recitazione, cominciò a frequentare l’ambiente del teatro e del cinema con buoni successi. Interessante leggere che perse il ruolo da protagonista nel mitico Giungla d’asfalto del 1950 di John Houston, che poi andò a Marilyn Monroe. Questo poco prima di scoprire di essere incinta della sorellastra di Cher, Georganne.
Lo show business era comunque nel sangue di Cher, in quarta elementare mise in scena una rappresentazione di Oklahoma! di Elvis. Aveva solo 15 anni quando Warren Beatty le prestò il costume da bagno di Natalie Wood. Poi la portò a fumare e a fare una nuotata. E solo 16 anni quando incontrò Salvatore Phillip “Sonny” Bono. Undicenne più grande di lei e divorziato, che le mentì dicendo di essere un discendente di Napoleone Bonaparte. Insieme diventarono una coppia di successo nel pop. Ricordiamo che Cher è l’unica cantante donna ad aver raggiunto la vetta delle classifiche di Billboard per sette decenni consecutivi. I Got You Babe, fu la loro canzone simbolo che riuscì addirittura a battere nelle classifiche dei singoli in UK, Help! dei Beatles.
La coppia era amatissima per le esibizioni in pubblico. Ma dietro le quinte lui si trasformava in un essere autoritario e iper controllore della vita di Cher. Non vi resta che leggere questa rutilante, ironica e talvolta dolorosa autobiografia in attesa di un annunciato sequel, previsto per il 2025.
L’estratto in esclusiva
A diciotto anni, Jackie Jean era un disastro annunciato. Sembrava una star del cinema: scolpita come una dea dal fisico incredibile, con una criniera di capelli castani e sempre vestita con grande gusto. Non si sarebbe detto che tutti gli abiti venissero dal mercatino dell’usato. Dentro, però, era ancora una ragazza di campagna fin nel midollo, troppo facile da manipolare.
Aveva ricevuto un’educazione battista e Roy le aveva inculcato l’idea che non avrebbe mai dovuto fare sesso con un uomo fino al matrimonio. «Non lasciare mai, mai, che un uomo ti tocchi se non siete sposati!» la metteva continuamente in guardia suo padre, riflettendo senza dubbio sulla propria storia. Con quelle parole che le rimbombavano nelle orecchie, Jackie Jean si mise in testa che sarebbe rimasta incinta anche solo baciando un ragazzo alla francese. E, dopo le molestie subite durante l’infanzia, aveva tutte le intenzioni di evitare il sesso fino a quando non avesse incontrato l’uomo giusto.
Johnnie Sarkisian – un armeno dalla parlantina sciolta nonché mio padre – era l’uomo sbagliato fin dall’inizio, e quando nel 1944 chiese a mia madre di ballare insieme il jitterbug a un evento della big band di Harry James a Fresno, in California, il suo istinto le disse di fare attenzione. Figlio minore e viziato di una grande famiglia, Johnnie aveva un anno più della mamma, ma indossava abiti e gioielli appariscenti che gli conferivano un’aria di maggiore maturità. Non era il suo tipo ed era troppo basso per i suoi gusti, ma quando ballarono insieme, la camicetta le si impigliò nel bottone della camicia di lui, e Jackie Jean rimase letteralmente incastrata. Quando Johnnie riuscì a liberarla, ormai si era resa conto che non solo era un bravo ballerino, ma possedeva an- che un certo charme.
Cominciarono a frequentarsi in un periodo in cui la vita era vissuta in modo più intenso e spontaneo per via della guerra che infuriava in tutta Europa. Anche se Johnnie era stato arruolato nella Guardia Costiera degli Stati Uniti – e poi congedato per motivi di salute – né lui né mia madre ebbero un’esperienza diretta della Seconda guerra mondiale. Quando Ann, la migliore amica della mamma, iniziò a frequentare Johnny Kevorkian, il migliore amico di Johnnie, mia madre si convinse ad andare a cavallo con loro, ma la sua sella scivolò e lei per poco non cadde. Fu Johnnie a salvarla: la sua prima grande giocata. La seconda fu quella di insegnarle a guidare e di prometterle la sua Buick decappottabile. Da quel momento iniziarono a vedersi regolarmente, ma lei non voleva andarci a letto perché non erano sposati.
Una sera, nel locale dove Jackie Jean lavorava come cameriera e cantante, un cliente che conosceva il debole di Johnnie per il gioco d’azzardo gettò dei soldi sul tavolo e gli disse: «Smettila di girarle intorno come un cane bastonato. Sposala». Lo sfidò a portarla fino a Reno, in Nevada, dove ci si poteva sposare sen- za tempi di attesa. Incoraggiati da alcuni amici che avevano un’idea simile, partirono in quattro quella stessa sera. Mia madre era sedotta dal suo fascino e dall’apparente stabilità, era colpita dal- la sua età e dalla sua esperienza; lo trovava forte, calmo e capace.
Prima ancora di rendersene conto, fu dichiarata signora Sarkisian in un frettoloso doppio matrimonio. Avendo appena compiuto diciannove anni e non permettendosi ancora una certa sfacciataggine, a mia madre non venne nemmeno in mente di dire di no, anche se pensava: Che cosa sto facendo? Era così infelice che a stento riusciva a trattenere le lacrime. Meno di ventiquattro ore dopo la cerimonia e ancora vergine, mollò Johnnie e fuggì a Fresno, dove un amico le promise di aiutarla a chiedere l’annullamento. Mio padre la seguì: non voleva nemmeno sentirne parlare. «Come fai a sapere che non vuoi essere sposata?» protestò. «Non hai nemmeno provato. Concedimi tre mesi.»
Ingenua e intrappolata, mia madre viveva in un’epoca in cui il supporto che le donne ricevevano dalla società era scarso o del tutto inesistente, e così, senza vedere altre vie d’uscita, tornò da
Johnnie anche se sosteneva di non essersi mai innamorata né fidata di lui. «Riusciva sempre ad avere l’ultima parola, a pensarne una più di me e a essere più furbo. Non ero alla sua altezza e mi ha ammaliata convincendomi a farlo.» Con farlo sapevo che intendeva il sesso.
Nella mia famiglia raramente le donne hanno scelto bene i loro uomini, e Jackie Jean non faceva eccezione, ma con Lynda come unico modello aveva poche possibilità. Sotto la sua patina raffinata, mio padre sarebbe diventato un eroinomane con una propensione al furto e un rapporto instabile con il lavoro. Non che all’inizio lei lo sapesse. Da novelli sposi, i miei genitori conducevano un’esistenza caotica e nomade, tirando avanti con la paga di mia madre e vivendo dai parenti armeni fino a quando la loro pazienza – o il denaro – non si esaurivano. La famiglia di Johnnie era delusa perché nessuno prima di lui aveva sposato una donna non armena ma, visto che mio padre era il figlio viziato, lo perdonarono. A eccezione della nonna, che era molto arrabbiata e diceva: «Hohvannes, è troppo alta per te!».
L’unica parente che accolse calorosamente mia madre fu zia Roxy, che non era affatto tradizionale come gli altri. Voleva essere una ragazza americana e fare tutto quello che faceva mia madre. Diventarono pappa e ciccia, ma non bastò a convincere la mamma a rimanere con mio padre, così, al colmo dell’infelicità, se ne andò dopo tre mesi e cercò conforto dalla madre trentaduenne. Invece di compatirla, però, nonna Lynda le chiese se fosse incinta. Quando venne fuori che lo era, Lynda, una cameriera che non aveva alcuna intenzione di accollarsi un moccioso, la portò ad abortire. Non avendo altro posto dove andare, mia madre accettò con riluttanza. La portarono da un medico compassionevole di Long Beach, uno dei pochi professionisti che aiutavano illegalmente le donne nonostante il rischio di finire in prigione, cosa non tanto diversa da oggi.
La mamma era pietrificata. Anni dopo mi disse: «Ricordo di aver aspettato su una vecchia sedia di acciaio croma- to. Il metallo era freddo, eppure grondavo di sudore, ero terrorizzata. Quando mi hanno detto che era il mio turno, sono salita sul tavolo, ma mentre ero lì sdraiata, in qualche modo ho capito che non potevo farlo, così sono scesa. Ci credi che sono arrivata a un passo dal non averti?». Si trovava in un momento terribile della sua giovane vita, con solo due strade tra cui scegliere, nessuna delle quali era semplice. Confusa e spaventata, ne imboccò una, ma poi tornò indietro e prese l’altra. Di conseguenza, io sono sopravvissuta e non ho mai fatto domande su quanto sia andata vicina a non avermi. Era il suo corpo, la sua vita e la sua scelta. Grazie a Dio è scesa da quel tavolo, comunque, altrimenti adesso non sarei qui a scrivere queste pagine.