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Togliete i piedi dal tavolo, i Club Dogo sono tornati a casa

Autocitazioni, richiami al passato, un progetto davvero realizzato dalla gente per la gente, la propria. Il nuovo album di Guè, Jake La Furia e Don Joe era ciò di cui il rap italiano aveva bisogno

Autore Greta Valicenti
  • Il12 Gennaio 2024
Togliete i piedi dal tavolo, i Club Dogo sono tornati a casa

I Club Dogo

“Nella notte note killer”. Si potrebbe sintetizzare così, con uno dei ritornelli più iconici della storia dell’hip hop italiano, l’uscita nelle ore notturne tra giovedì 11 e venerdì 12 gennaio di Club Dogo, il nuovo album dei triumvirato più significativo del rap nostrano con il bomber – segno distintivo di ogni zanza che si rispetti – al posto della toga. Non solo perché il disco che sancisce la reunion tra Guè, Jake La Furia e Don Joe sprizza Mi Fist vibes (alla faccia che non fossero più quelli di) da ogni barra maniacalmente curata e da ogni beat sapientemente intessuto (con un Joe più in forma che mai. Ma quando il campionato si gioca tra fuoriclasse è facile alzare l’asticella). E nemmeno perché nella dubbata di King Of The Jungle riecheggiano le parole di Jake del lontano 2003.

Ma perché con queste undici tracce che bramavamo da ben dieci anni – passati a consumare compulsivamente i loro vecchi album culto aspettando questo momento che, in fondo, ce lo sentivamo sarebbe arrivato prima o poi – i Club Dogo hanno impugnato il ferro del mestiere che maneggiano come quasi nessun altro (i rapper che oggi hanno una capacità lirica e una potenza evocativa di questo calibro si contano sulle dita di una mano. E due sono già occupate da Guè e Jake) e sparato barre e beat con il flow non della Madonna ma della Madonnina e la precisione di un cecchino veterano.

Il 2024 ha già il suo disco dell’anno?

E uccidendo – per chi vi scrive – qualsiasi possibilità, ci spiace dirlo, che ogni altro album rap in uscita in Italia nel 2024 (a meno che Marracash non pubblichi un disco) possa reggere il confronto con questo instant classic. Il motivo è semplice: è statisticamente molto difficile – se non impossibile – competere quando le migliori penne e mani della scena, quella di Guè, Jake La Furia e Don Joe – decidono che è arrivato il momento di riaccendere la fiamma. Unirsi come coca e bica e dire a tutti “Togliete i piedi dal tavolo, i capi sono tornati a casa”. Del resto, il flow certificato è solo uno. Anche dopo dieci anni.

Sì, i Club Dogo sono ancora quelli di “Mi Fist”

Diciamocelo: le reunion sono (quasi) sempre una bella notizia, ma la paura del posticcio e del sopirsi di quella scintilla che prima era incendio che porta all’inesorabile declino che oscuri come i vetri di una Mercedes la felicità dei bei tempi andati è sempre dietro l’angolo. Un po’ come quando decidi di riprovarci con quel/quella ex con l’illusione di poter ricomporre il passato senza crepe. Ma sotto sotto con la consapevolezza che le cose non torneranno mai come prima.

Era questo il (seppur celato) timore che – nonostante le richieste assillanti di un ritorno – serpeggiava tra gli affezionati (considerate anche le voci che volevano Guè e Jake La Furia non proprio in rapporti idilliaci, ma l’alchimia – almeno quella sulla traccia – non è cambiata di una virgola. Senza contare il meme sul fatto che si trattasse della grattata del secolo, idea che i Dogo hanno ribaltato a loro favore lanciando una grattugia come gadget) e che i tre hanno scongiurato già solo premendo play su C’era una volta in Italia, la traccia apripista dell’album.

Club Dogo non è (o almeno, non è solo, perché per onestà intellettuale non possiamo ignorare la massiva campagna di marketing e comunicazione che ha accompagnato la release. Tra il merchandise più svariato, una sfilza di concerti al Forum e l’ultima notizia: una data a San Siro a giugno) un disco fatto per i soldi. È un prodotto che profuma di asfalto ruvido e polvere da sparo fatto dalla gente per la gente. La propria, la più intransigente e fedele. Quella che un tradimento nel nome del trend non l’avrebbe accettato mai. E questo Guè, Jake e Don Joe lo sanno bene.

“Club Dogo” è davvero “il sogno di ogni zanza”

Infatti zero filler, nessun brano dichiaratamente radiofonico (ma Nato per questo con una magistrale strofa di Marracash, che ricorda a tratti Ultimi giorni e Eravamo re, e Soli a Milano con Elodie hanno decisamente buone possibilità di entrare nell’AirPlay). Nessuna strizzata d’occhio a ciò che va (anche se ci sarebbe da chiedersi quanto questa definizione abbia un senso oggi che la musica italiana è praticamente una rapcrazia). E soprattutto nessun overbooking o collaborazione fuori posto che avrebbe fatto senza dubbio storcere il naso.

Solo il puro e semplice “sogno di ogni zanza” – claim che ha alimentato l’hype per l’uscita -, tra autocitazioni (la già nominata Note Killer in King Of The Jungle. Dogodrama Intro in Tu non sei lei, una scurissima e tormentatissima love song. Il mio mondo, le mie regole e Vida Loca in Milly), reference alla golden age dell’hip hop (Jay-Z, Nas, Lil Wayne e chi più ne ha più ne metta), alla letteratura e all’arte figurativa (intellizanza is the new intelligangsta?) e – ovviamente – atmosfere da gangsta movie con Milano che immancabilmente sfreccia sullo sfondo.

Milano sempre sullo sfondo

Se, infatti, i Club Dogo avessero una quarta componente oltre a Guè, Jake La Furia e Don Joe, quella sarebbe senza dubbio Milano. Una mamma accogliente che culla i suoi figli e subito dopo una matrigna crudele che non esita a cacciarli via come derelitti, quella che ti perdona o ti ammazza.

La Milano patinata, lussureggiante e lussuriosa del centro, quella delle mille luci dietro le quali si nascondono però le ombre di una città che “ti sputa dopo che ti mastica” e che “mangia le anime e le tiene sotto vetro, e poi getta i corpi consumati dai vagoni in metro” (dal Vangelo di strada secondo Ivan Reznik, Montenero e Vincenzo da Via Anfossi. Due nomi che – non possiamo nasconderlo – avremmo sperato di vedere nel roster di featuring).

Crocevia di culture, contraddizioni, in un precario e misterioso equilibro tra lecito e non. La loro Milano, quella che i Dogo hanno raccontato come nessun altro. La Milano dei “quattro pregiudicati che gridano il mio nome, frate. Balordi, ultras, buttafuori, avvocati, frate’, mi proteggono dagli sbirri e dalle coltellate” (Frate). Quella che “si regge su due leggi semplici: con gli sbirri non ricordi, con gli amici non dimentichi” (Nato per questo). Insomma, quella Milano che dieci anni dopo, nella musica dei Dogo, ritrova ancora il suo unico, solo e insostituibile inno alla marmaglia. E questo, alla fine, è l’unico sogno realizzato che conta davvero.

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