Daniele Vicari: «“Fela il mio dio vivente” restituisce un’idea di Africa sorprendente, frenetica, vitale»
Esce in sala il sorprendente doc su Fela Kuti che ci racconta attraverso un’interessante idea di cinema uno spaccato di vita del grande artista dell’afrobeat
Presentato nella sezione Freestyle alla Festa del Cinema di Roma, con ottimi riscontri di critica e pubblico, Fela il mio dio vivente (una produzione Fabrique Entertainment e Luce Città con Rai Cinema, in uscita il 21 marzo, con la voce narrante di Claudio Santamaria e musiche originali di Teho Teardo), sfugge a qualunque classificazione. Non è un puro documentario di montaggio, ma neanche un biopic. Daniele Vicari infatti è partito dal recupero di antiche immagini di un lavoro mai pubblicato prima su Fela Kuti da Michele Avantario. Un particolare filmmaker e video artista italiano con una lunga esperienza in programmi TV, video musicali e video arte.
Fela Kuti è stato una importante cantante e compositore, nonché polistrumentista, uomo politico e capo spirituale. Tra gli anni ’70 e ’80 ha pubblicato tantissimi dischi riuscendo a conquistare il mercato grazie alla sua particolarissima miscela di funk, musica africana, jazz e molto altro. In questo momento storico di grande vitalità della musica africana, riscoprire sotto questa originalissima lente d’ingrandimento la figura del musicista nigeriano è di assoluta attualità. Abbiamo chiesto a Daniele Vicari di scrivere per noi in esclusiva un pensiero su come sia arrivato al concepimento e poi alla realizzazione di Fela il mio dio vivente.
Il testo di Daniele Vicari su “Fela il mio dio vivente”
Nel 1984 avevo 16 anni, e venni a vivere a Roma. Ero una sorta di “tabula rasa”, un ragazzo spaesato. Anzi, spatriato. Non conoscevo il cinema, non conoscevo la musica. Ascoltavo l’hard rock e il reggae ma un po’ a caso, devo essere sincero. Il 1984 è l’anno del concerto romano di Fela Kuti, un concerto rimasto nella memoria di molti. Io non ci andai perché non sospettavo nemmeno esistesse un artista come Fela. Lo scoprii nei mesi successivi. A seguito di quel concerto nei centri sociali, durante le manifestazioni, nelle feste e nei locali di musica africana che a Roma erano un bel po’, la musica di Kuti cominciò a circolare.
Mi sono molto emozionato quando, guardando i repertori che Michele Avantario ha lasciato a Renata di Leone, ho capito che si trattava di quell’anno lì e di quel concerto lì che riecheggiò in tutta la città per mesi. Raggiungendo persino un outsider come me.
Non la solita apologia di un gigante della musica del ‘900
Nel 2019 camminando lungo il porticato dell’Auditorium, alla festa di Roma, ho incontrato Renata Di Leone. Avevo scelto Giovanni Capalbo, suo secondo marito, per un piccolo ruolo in Alligatore e lui era lì con lei. Mi fermarono e mi raccontarono di aver creato una società di produzione che si chiama Fabrique Entertainment. Poi mi raccontarono dell’esistenza di questi repertori lasciati a Renata dal suo primo marito, morto nel 2003.
Loro mi parlarono dell’idea di fare un film su Fela Kuti, grazie a queste immagini. Ma quando ho visto una parte di quel patrimonio ed ho letto gli appunti di Michele, che aveva intenzione di fare un film di finzione su Fela Kuti, rimasi molto colpito dal modo in cui quelle immagini erano state realizzate. Dall’intenzione del regista che vi traspariva, oltre che da cosa mostravano. Il materiale di Michele mi offriva una opportunità unica per fare qualcosa che nei film musicali è praticamente impossibile: un film che non fosse la solita apologia di un gigante della musica del ‘900.
Quasi sempre i film musicali sono poco interessanti dal punto di vista strettamente cinematografico. Ci sono troppi vincoli, cioè le etichette musicali, le famiglie degli artisti. Gli artisti stessi che hanno una “immagine” che vogliono mantenere a tutti i costi. Nelle riprese di Michele invece Fela Kuti è ripreso nella sua nuda verità quotidiana, senza censure o autocensure. Lo sguardo di Michele ci racconta un Fela Kuti in chiaroscuro e più umanizza quell’uomo più lo rende importante ai nostri occhi, perché lo coglie nella sua fragilità. Non è una popstar che vediamo rappresentata ma un amico, un maestro, un “babalawo”. Soprattutto quelle immagini raccontano due cose che ho considerato idee guida: lo sguardo di Michele, la sua intenzionalità particolare e la storia di un progetto cinematografico fallito. Due cose molte significative, cosa avrei potuto chiedere di più?
Il pubblico e il privato di Fela Kuti
Su Fela Kuti esiste una agiografia non enorme ma importante. Quasi tutte le opere, libri e film, che sono state realizzate su di lui ci raccontano la sua grandezza, il suo essere un genio, la sua fantastica creatività, la sua determinazione politica. Va benissimo, le ho viste e lette e le ho apprezzate, ma Michele ci racconta una cosa più preziosa. Innanzitutto chi è quell’essere umano e inoltre, quando quell’uomo muore tra le sofferenze di una terribile malattia, perché al suo funerale scatta una festa di massa, con un paio di milioni di persone che alternano le lacrime al canto e al ballo e al sorriso. Un saluto così imponente e così pieno di affetto oltre che meravigliosamente festoso io, sinceramente, non l’avevo mai visto. Nelle immagini di Michele la vicenda pubblica di Kuti si mescola con quella privata, intima.
Per esempio Michele, unico ospite bianco al 56mo compleanno di Fela, riprende per 24 ore una festa scoppiettante. Michele è assente dalle riprese ma tutti salutano l’obiettivo dietro cui si cela. Quindi l’incorporeità imposta dalla camera a Michele, fa sì chi lui si materializzi nello sguardo e nel cuore di chi è li per festeggiare. Così ci rendiamo conto che tutti lo conoscono e gli sorridono. Ed è bello che il suo sguardo, nel film, diventi il nostro.
Quelle riprese effettuate in un solo giorno raccontano del mondo di Fela molto di più di analisi musicali raffinate o testimonianze importanti di grandi musicisti. Perché mostrano il suo mondo che è fatto della carne e del sangue di un toro, con i piedi nudi dei macellai e anche degli ospiti che calpestano quel sangue, mescolando la loro vita con la morte (esattamente ciò che io stesso ho vissuto da ragazzino in montagna quando veniva “scannato il maiale”). Le immagini mostrano poi come viene cucinata quella carne e come viene preparata la marijuana, usata come tramite, veicolo di comunicazione tra i vivi e anche tra i vivi e i morti, tra i vivi e gli spiriti. Ecco che capiamo meglio la rilevanza dei riti animistici che Fela praticava proprio lì, “sacerdote” di un culto che lo collega all’aldilà. Un rito nel quale Michele entra per uscirne radicalmente cambiato.
È fondamentale il fatto che Michele non fosse un intellettuale o uno studioso, era un cineasta. Il suo pensiero era libero. Non stava lì a Lagos, in mezzo a quelle persone, come antropologo per guardare e analizzare un mondo a lui sconosciuto. Michele era uno di loro e ciò che riprende e racconta è la sua stessa vita vissuta. Per questo non ha avuto un approccio ideologico e io mi riconosco completamente in lui. Perché Michele mi fa il regalo di farmi vivere ciò che io non ho vissuto: una meravigliosa intimità con donne, uomini, bambini molto ma molto vicini a me, molto familiari. Il suo approccio supera anche il più laico dei terzomondismi che, per quanto scevro da ogni razzismo resta pur sempre un approccio “dall’alto”.
Noi occidentali, anche quando pensiamo di “salvare” gli africani che arrivano con le barche in mezzo al mare (ammesso che davvero riusciamo a salvarne qualcuno) non facciamo che ribadire la nostra altezzosa superiorità attraverso la tecnologia, lo stile di vita, le idee anche le più “compassionevoli”. Invece Michele è uno di loro e mentre io guardo le sue immagini, immerse nella vita di Kalakuta, ho l’opportunità di essere uno di loro attraverso quello sguardo libero, anarchico. Per tutto ciò vado dicendo da mesi che l’approccio di Michele, da questo punto di vista, supera anche il cinema terzomondista.
Anche quello grande o grandissimo che alcuni nostri cineasti del passato hanno praticato. Come Ennio Lorenzini, Gillo Pontecorvo o Ansano Giannarelli i quali, inevitabilmente, essendo dei militanti e combattenti per la libertà dei popoli, avevano ben mescolato nelle loro intenzioni artistiche una forma ideologica occidentale applicata ad una realtà che sfuggiva e sfugge a certi schemi, a certe scuole di pensiero.
Anche Fela Kuti parte dal socialismo per sfociare però nell’animismo, come ha fatto con la musica, almeno stando alle sue dichiarazioni (riportate da Peter Culshaw), è partito da Handel e dal Jazz per creare una cosa unica, insieme a Tony Allen, che si chiama afro-beat, mescolando stili preesistenti, gettandosi nel futuro, sfuggendo a categorizzazioni che al confronto con la vitalità del gesto creativo, lasciano il tempo che trovano.
Michele vuole far parte del mondo di Fela, con tutto sè stesso, non ha intenzione di osservare proprio nulla, lui è lì e vive con Fela e con il suo entourage familiare e artistico. Infatti Seun Kuti, figlio di Fela, ha dichiarato che considera Michele uno zio. Al punto che durante la malattia del padre Michele è stato per lui, ragazzino di dieci dodici anni, un punto di riferimento fondamentale. Seun è persino venuto per alcuni mesi a Roma, a casa di Michele, per elaborare il dolore della perdita del padre. Uno zio è una cosa che ha a che fare con il DNA, con la “famiglia umana”, con l’appartenenza. Per cui Michele, partecipando alla esistenza di quelle persone, cambia la nostra stessa società facendosi conquistare da una cultura, da un ritmo, da idee non sue. Demolendo ogni residua scoria colonialista che risiede in ciascuno di noi bianchi occidentali.
Ecco che con le sue riprese ci restituisce un’Africa sorprendente, frenetica persino, caotica oltre che vitale. Allora bisogna chiedersi cosa fa Michele lì? Fugge? Cerca di ritrovarsi? Secondo me Michele fa “la rivoluzione”, nel suo diario filmato e scritto. Ci racconta l’inevitabile e progressiva immersione in un mondo al quale lui non appartiene, ma al quale vuole, anzi, sente di dover appartenere. Per questo il mio film doveva per forza restituire il calore e anche la frenesia di essere in quell’altrove che diventa un qui ed ora.
E, secondo la suggestione che mi pare di aver colto nel lavoro di questo cineasta particolare, unico e sconosciuto, ho voluto farne la storia di una impresa cinematografica sorprendente che, pur nel fallimento, ci consegna una idea straordinaria di cinema. Basti pensare che Michele non aveva nessuna intenzione di realizzare un documentario su Fela Kuti. Lui voleva fare un film di finzione, ha scritto una sceneggiatura, e voleva che Fela interpretasse se stesso. Invece sono giunte a noi le immagini “documentarie” che ha realizzato in forma di appunti visivi, documentazione del proprio percorso, materiali per la scrittura di una sceneggiatura da consegnare all’industria Hollywoodiana, nientemeno!
Quindi Michele parrebbe non aver capito l’importanza di ciò che stava facendo, ma la cosa bella è che lo ha fatto. Noi però, con il senno di poi, possiamo capirne l’importanza e in qualche modo possiamo farla nostra e valorizzarla. Michele ci consente di riflettere “in presa diretta” su cos’è un film nel bel mezzo di una trasformazione epocale del cinema. Il passaggio dall’analogico chimico (la pellicola) all’analogico elettronico (il videotape) al digitale, avvenuto tra gli anni ‘70 e gli anni ’90. Inoltre ci racconta come nasca e cresca una idea di cinema e come sia possibile che, a volte, un’idea di mondo si concretizzi cinematograficamente. La sua débâcle fragorosa e affascinante, credo sia un’opportunità incredibile oggi per noi. Se non altro per capire cosa ci siamo persi e cosa dovremmo ritrovare per essere all’altezza dei nostri propositi.