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Gino Paoli fa (quasi) 90 anni e incanta con la sua autobiografia dissacrante ma piena d’amore

Arriva in libreria “Cosa farò da grande” e non aspettatevi un libro auto celebrativo, piuttosto un emozionante, spesso ruvido, sicuramente disincantato, racconto di una meravigliosa vita artistica

Autore Tommaso Toma
  • Il30 Ottobre 2023
Gino Paoli fa (quasi) 90 anni e incanta con la sua autobiografia dissacrante ma piena d’amore

Gino Paoli, foto tratta dalla sua autobiografia "Cosa farò da grande", archivio Paoli - Penzo

Ieri sera abbiamo visto Gino Paoli presentare la sua autobiografia da Fabio Fazio a Che Tempo Che Fa. Era insieme a Ornella Vanoni, che è stata e ovviamente sarà per sempre una partner in crime della sua vita artistica. Ma non fatevi influenzare dai siparietti forzatamente divertenti – Fazio ovviamente spingeva acqua al suo mulino – che si sono innescati durante la conversazione tra Gino e Ornella, stile: “Ti ricordi la tua prima sbronza?”, etc.

C’è per fortuna scappata anche una ipotesi di concerto assieme nel futuro, magari in occasione dei 90 anni di entrambi che sarà a fine settembre 2024. Se prenderete in mano questa magnifica autobiografia, Cosa farò da grande (Bompiani) troverete pensieri profondi e tanti aneddoti di questo artista unico per personalità in Italia.

Se non ci fosse Gino Paoli, andrebbe inventato. Sicuramente per la sua preziosa, incredibile maestria  compositiva che lo ha portato a scrivere e poi a cantare alcuni capolavori della musica popolare italiana. Ma anche per il personaggio che è stato, coerentemente, in tutti questi decenni. Dotato di una straripante creatività – dalla forma canzone al disegno e alla pittura –, Gino Paoli non ha mai cambiato faccia, è sempre stato quello lì, amato dai più. Irritante per chi non comprendeva la sua ironia, il suo sarcasmo fulminante, il suo essere un “rompiballe”, come lui stesso ammette (“L’arte del compromesso non è mai stata nelle mie corde”). 

La guerra, le bombe ma anche la scoperta della musica americana

Cosa farò da grande. I miei primi 90 anni, scritto con Daniele Bresciani, è un bellissimo libro. Sono ben 352 pagine che però scorrono via partendo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Già qui ci sono alcuni passaggi geniali, come la raccolta degli elmetti trafugati di notte che la mamma usò per anni come fioriere e i pensieri di Gino sulle guerre. “Non c’è molto da spiegare. Sono una cazzata inutile, perché provocano solo dolore senza senso”.

Ma sulla fine di quegli anni fatti di bombardamenti ristrettezze, e anche di poca voglia di applicarsi di studiare, scrive Paoli: “Non me n’è mai fregato niente. Però ero bravo a disegnare, già da bambino. Disegnavo ovunque capitasse. Su qualunque cosa”. Arriva però in quel periodo anche la scoperta della musica americana, grazie ai soldati americani. In cambio di un paio di pomodori e delle cipolle il piccolo Gino Paoli ricevette in cambio un Victory Disc, dei vinili 78 giri registrati appositamente per le truppe con brani di tutti i grandi dell’epoca. Da Frank Sinatra a Bing Crosby e Duke Ellington.

Seppur in casa Paoli la musica (classica) fosse presente, questo evento illuminò le fantasie e la vena artistica del nostro senza dimenticare che l’influenza americana arrivò non solo in forma di vinile, ma anche di celluloide. “È il 1956 quando nelle sale italiane esce Il seme della violenza di Richard Brooks, e per me come per tanti altri fu la scoperta semplicemente del rock’n’roll”.

Gino Paoli, pittore bohémien e sfiorato dalla morte

Cresciuto artisticamente in quell’enclave miracolosa che si creò musicalmente ma anche culturalmente a Genova con Tenco, Lauzi, Endrigo, De André, i fratelli Gian Franco e Gian Piero Reverberi. Ma anche con l’amicizia stretta di Gianni Minà e Arnaldo Bagnasco, che dopo aver fatto l’attore è diventato sceneggiatore e poi direttore di programmi Rai, Gino Paoli ha attraversato le stagioni più straordinarie della canzone italiana da protagonista.

Seppur all’inizio facesse la vita bohémien del pittore, vivendo su una soffitta caldissima d’estate, tanto freddo d’inverno che se non fosse stato per i sintomi di malessere notati guardando l’amata gatta Ciacola, (sì, proprio quella a cui Paoli dedicò la mitica canzone, La gatta), sarebbe morto asfissiato per le esalazioni di gas: “A lei, quindi, devo molto più del successo di una canzone”. Una morte sfiorata alla fine anche quando, nel 1963 si spara. Ma la pallottola si ferma nel pericardio, dove sta ancora anche se “non rompe più le scatole facendo suonare il metal detector, deve essersi arrugginita”.

La gatta” e “Il cielo in una stanza”, canzoni mitiche, senza volerlo

Come racconta Gino Paoli nella sua autobiografia, i successi a volte nascono senza volerlo. Successe così con La gatta, uscita nel gennaio del 1960. Vendette pochissimo, ma per alcuni strani giri e motivazioni indecifrabili la canzone cominciò a risuonare in tutti i juke-box d’Italia in estate, diventando così la sua prima hit discografica.

Anche con Il cielo in una stanza, descrizione puntuale di un orgasmo, non era ben vista per la sua particolare struttura e Gino Paoli neanche credeva all’inizio che funzionasse cantata da Mina, all’epoca una “urlatrice”, quella che aveva avuto successo con Una zebra a pois e Tintarella di luna. E invece la leggenda narra che Mina colse perfettamente lo spirito che aveva in mente Paoli e in più si mise a piangere alla fine della sua registrazione. La versione di Mina uscì un mese prima di quella di Paoli e quella canzone cambiò la vita a tutti e due.

Ornella Vanoni e il rapporto con il successo

Come cambiò la vita di Gino Paoli anche l’incontro con l’amata Ornella Vanoni, alla quale ovviamente il cantautore dedica spazio e attenzione nella sua autobiografia. Lui le insegnò a cantare il pop, a questa giovane bellissima ed elegantissima ragazza che possedeva due ottave di estensione, una pura voce da soprano. Lei anche a scoprire i piaceri dell’erotismo.

Paoli che non ha mai nascosto la sua passione per i bordelli e le prostitute. Volete dirmi chi c’è più rock di lui in circolazione? Ecco cosa pensa dei trofei, tanto per fare un esempio: “C’è un fosso, appena fuori Roma, nel quale ho scaricato spesso le targhe o le coppe più brutte che ho ricevuto. Quei pochi che sono arrivati a casa, non sono in bella vista, ma in posti più defilati. In bagno, per esempio. E comunque le targhe mi danno sempre un’impressione macabra, sanno di “postumo”. Una targa con scritto: tu sei il più bravo di tutti, te la danno solo quando sei morto. Che poi da morti siamo tutti brave persone. Ma posso garantire di averne conosciuti tanti che in vita invece erano dei figli di p****na mostruosi”.

Meglio perdersi nella lettura – passione sempre seguita da Gino Paoli, che racconta nella sua autobiografia – e con grandi innamoramenti letterari: Antonio Tabucchi, Fernando Pessoa, Gabriele D’Annunzio, Henry Miller. E anche l’amore per le poesie di Giorgio Caproni (che gli scriveva dettagliatissime note su come leggere i suoi versi: “Qui devi urlare…” “Qui quasi sottovoce…”). Un aneddoto: un giorno il suo amico produttore Sergio Bardotti e i suoi collaboratori furono colti in sala di registrazione ridere di crepapelle sentendo la voce del povero Ungaretti.

E a fine libro cosa può fare un ligure doc come Gino Paoli se non insegnarti il suo pesto?

Rigorosamente con il basilico di Prà (che non possiede quel tono di menta nel profumo), le noci al posto dell’aglio e una patata in cottura rigorosamente tagliata a fettine sottili, non a tocchetti. Quello lo fa la gente che viene da fuori. “Roba da foresti”.

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