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Soundcheck

“Infinite Jest”, romanzo grunge

Il capolavoro di David Foster Wallace, pur immaginando un futuro fin troppo simile al nostro presente, è anche un’opera fortemente radicata nel suo tempo, gli anni ’90. E non è difficile individuare il suo correlativo musicale, come facciamo in questa puntata di Soundcheck

Autore Federico Durante
  • Il4 Gennaio 2024
“Infinite Jest”, romanzo grunge

Foto di Kym MacKinnon / Unsplash

Non so cosa mi abbia spinto a rileggere Infinite Jest, il romanzo-fiume di David Foster Wallace che sarebbe fin troppo facile definire “profetico”, il colosso di milletrecento pagine paragonabile giusto a Ulisse di James Joyce in termini di varietà di stili narrativi, respiro enciclopedico, capacità di fissare lo Zeitgeist in un’opera, a modo suo, definitiva.

La complessità di Infinite Jest di David Foster Wallace

La prima volta che lo lessi (forse incuriosito dalla menzione di Wallace in Hipsteria dei Cani) ero del tutto impreparato a reggere l’impatto di un romanzo così complesso e respingente. Pensavo, sbagliando, che avrei trovato appunto una versione “aggiornata” di Joyce. Non ero pronto all’estrema complicazione strutturale di piani narrativi all’apparenza quasi slegati uno dall’altro, all’assenza di chiari riferimenti temporali e nessi causali, al labirintico apparato di note e sub-note al testo – parte integrante dell’intreccio – di lunghezza variabile da poche parole a diverse decine di pagine.

Lo detestai. Non sopportavo in particolare quella che mi sembrava una deliberata volontà dell’autore di frustrare il lettore con una quantità di sequenze narrative lente, verbose, esageratamente descrittive, con una scrittura autocompiacente che lasciava trapelare un certo narcisismo. Ma il mio narcisismo di neolaureato in Lettere mi diede la forza per arrivare, con fatica, alla fine del libro (regola osservata in tutta la mia vita di lettore con l’unica eccezione di Tiziano Terzani: con lui non ce l’ho fatta).

Il richiamo del grande romanzo

Qualche anno dopo riprovai ad affrontare Wallace con un approccio diverso. Non con il romanzo apparentemente interminabile ma con l’essenzialità narrativa della forma racconto. Brevi interviste con uomini schifosi è un’opera brillante e, a tratti, anche spassosamente comica, ma – al netto della complessità strutturale – vi ritrovai lo stesso incedere viscoso e lo stesso stile autoreferenziale del grande romanzo. Missione fallita.

Ero insomma del tutto demotivato ad approfondire ulteriormente David Foster Wallace, in più con la frustrazione non riuscire a farmi piacere un autore quasi universalmente additato come grande genio della letteratura americana contemporanea.

Tuttavia continuavo ad avvertire una sorta di magnetismo, di richiamo di Infinite Jest di Wallace. Anche a distanza di anni – e a differenza di tante altre letture fatte in precedenza – mi rendevo conto che mi ricordavo nitidamente molte scene e molti personaggi del libro. Termini come Eschaton, Intrattenimento, samizdat, ONAN, Concavità, anulazione, Anno del Pannolone per Adulti Depend, Assassins des Fauteuils Rollents continuavano a esercitare un ineffabile fascino nella mia mente. Potremmo dire che il tomo (edizione economica Einaudi con copertina tipo “vanilla sky”) sembrava quasi osservarmi dall’alto della libreria, chiedendo una seconda chance, senza fretta.

Perché rileggere Infinite Jest di Wallace

Galeotto fu anche Rick DuFer con la sua video-monografia Smarriti nell’Infinite Jest, e prima ancora con Il mio Infinite Jest. Pur senza disvelare grandi significati reconditi che l’opera già di suo non trasmetta al lettore in modo cristallino (semmai una rilettura favorisce l’individuazione di dettagli e nessi narrativi sfuggiti in un primo momento, un po’ come succede con il film Il grande Lebowski, mutatis mutandis), la visione esistenziale che ne dà il filosofo – di un libro che riesce a “entrare nelle pieghe della tua vita” – mi ha convinto a tirare giù dalla libreria lo spesso volume per la seconda volta.

Ma non è stato solo questo. Il romanzo parla sì di un futuro distopico (sulle cui impressionanti somiglianze con il nostro presente – dalla crisi ambientale all’avvento di Netflix alle nuove forme di “lobotomia di massa” – non ci soffermeremo: ciò meriterebbe un articolo a sé), ma porta con sé anche un fascino tutto legato all’epoca in cui prese forma.

In altre parole, Infinite Jest di David Foster Wallace è anche un’opera fortemente radicata nel suo tempo, gli anni ’90. Molto è dovuto agli aspetti tecnologici, che costituiscono tanta parte della semantica del libro. Cartucce, copie master, CD-ROM, videofoni, pesanti apparecchiature filmiche: retaggi di un’epoca a cavallo fra analogico e digitale. Un’epoca di walkman e PlayStation, di lettori CD e grossi modem: a differenza di oggi, il nuovo passava da una proliferazione di diversi supporti fisici anziché dalla loro riduzione in device “universali”.

Infinite Jest come romanzo grunge

Se Infinite Jest, pur immaginando il futuro, è un romanzo così intrinsecamente anni ’90, allora è anche facile trovare il suo correlativo musicale. Infinite Jest non sputa la rabbia senza filtri del punk, non esagera il lato oscuro dell’essere come il metal. No: Infinite Jest è senza dubbio un romanzo grunge.

Peraltro la coincidenza temporale è pressoché perfetta. La prima stesura del romanzo risale al 1989, l’anno dell’album d’esordio dei Nirvana, Bleach. Il manoscritto fu completato fra il 1991 e il 1993, gli anni di massima espressione del genere con capolavori come Nevermind dei Nirvana, Ten dei Pearl Jam, Dirt degli Alice in Chains e Badmotorfinger dei Soundgarden. Infine fu pubblicato nel 1996, quando con No Code i Pearl Jam sancirono di fatto la fine di una stagione musicale irripetibile. Insomma, a livello temporale la genesi del romanzo ricalca in modo millimetrico la parabola del grunge.

Non so se David Foster Wallace fosse fan delle band che ho citato. Non so neanche se amasse il rock in generale. Ma non posso fare a meno di trovare nelle pagine di Infinite Jest quello stesso decadentismo fin de siècle che il grunge ha espresso in modo così icastico.

Non è solo per l’ampia, esplicita trattazione di temi come le dipendenze, la depressione, il suicidio. Né per la triste fine prematura dell’autore che lo accomuna a tanti protagonisti del grunge. C’è anche tutto questo, certo. Ma allora perché avverto quella stessa spaventosa sensazione di nulla esistenziale leggendo passaggi “innocui” come le pagine di dialoghi fra gli allievi della Enfield Tennis Academy o l’interminabile conversazione fra Steeply e Marathe sulla collina a nordovest di Tucson, Arizona, da cui sembrano dominare l’intero cosmo?

Fra umorismo e disperazione

Infinite Jest di Wallace è un romanzo che, anche quando sembra parlare di tutt’altro, non fa che esprimere una terribile, ineluttabile disperazione. Quello che fu il “no future” del punk si avvicina pericolosamente all’individuo, schiacciandosi ai corpi fino a diventare una sorta di “no present”. Proprio come è stato il grunge nelle sue espressioni migliori.

Nonostante le ovvie diversità di forma (laddove le canzoni di qualsiasi genere musicale sono per loro natura brevi ed essenziali), esiste un sottile fil rouge d’ispirazione – se non addirittura d’espressione – fra il romanzo e brani come Down in a Hole e Nutshell degli Alice in Chains, Black dei Pearl Jam, Black Hole Sun dei Soundgarden, Something in the Way dei Nirvana (giusto per citare sempre le quattro grandi band).

Come Cobain, peraltro, Wallace è anche capace di sorprendenti slanci di umorismo. Non aspettatevi da Infinite Jest un romanzo tutto in tono minore: è anche un libro che spesso e volentieri fa ridere. Un riso amaro, naturalmente, un dark humour. Con punte “poetiche” irraggiungibili: la vita miserabile di Povero Tony Krause e la fine inclemente di Lucien Antitoi sono scene in cui al gusto grottesco della narrazione di Wallace si aggiunge una qualità lirica che lascia senza parole.

Sono sensazioni non dissimili dai Nirvana di On a Plain (“The finest day that I’ve ever had / Was when I learned to cry on command”) o della desolante Something in the Way (“It’s okay to eat fish / ‘Cause they don’t have any feelings”). Ironia e disperazione, sorriso stampato in faccia e fuoco nelle viscere. Un mix fatale che ha accomunato due dei più grandi geni artistici di fine millennio. Prima che un fucile o una corda mettessero la parola “fine” alla loro storia.

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