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Johnny Marsiglia, “Gara 7” non è un movie, ma il match della vita. L’intervista

Lo avevamo lasciato cinque anni fa con “Memory”, un disco in cui c’era tutta la passione del rapper di Palermo, e ora lo rincontriamo con un album lungo e intenso in cui ha dovuto ritrovarla per ritrovarsi. E questo, alla fine, è l’unico traguardo che conta

Autore Greta Valicenti
  • Il17 Giugno 2023
Johnny Marsiglia, “Gara 7” non è un movie, ma il match della vita. L’intervista

Johnny Marsiglia, "Gara 7" è il nuovo album, foto di Andrea Bianchera

Nell’ultimo decennio (arrotondando per difetto), in Italia il rap si è piano piano trasformato da genere incompreso e relegato ad un circuito che guardava fieramente il mainstream dal basso in alto, ad allettantissimo game a cui tanti giocano ma in cui poi, a conti fatti, pochi vincono davvero. C’è chi trionfa in pompa magna con numeri esorbitanti e colonizza per settimane tutte le classifiche possibili, e chi forse lo farà più in sordina con canzoni che però bruciano sulla pelle come il sole di Palermo in pieno agosto (e poi c’è chi fa entrambe le cose, ma quella è un’altra storia ancora). Johnny Marsiglia fa senza dubbio parte della seconda categoria. E non solo perché ad agosto e a Palermo ci è nato, ma perché quello in cui sta gareggiando con Gara 7, il suo nuovo album uscito ieri, è un altro campionato.

Un campionato in cui Johnny Marsiglia concorre con classe, cuore e skills e il cui traguardo vale molto più di milioni di streaming. E come potrebbe essere altrimenti, quando hai trascorso cinque anni – quelli che hanno separato Memory da Gara 7 – a ritrovare quella Passione per ritrovarti e ad aspettare che quelle emozioni che ti hanno sempre alimentato si riaccendessero di nuovo? Se Memory era il disco del ricordo e della nostalgia di un passato cristallizzato tra le vie della sua città, Gara 7 è il primo necessario passo verso un nuovo futuro in cui Johnny è pronto a giocarsi tutto il giocabile, come se fosse davvero l’Ultimo tiro di questo decisivo match della vita. Per dimostrare a tutti (ma in primis a se stesso) che, nonostante gli anni passati, non è né liricamente, né clinicamente morto. Anzi. È più vivo che mai.

L’intervista a Johnny Marsiglia

“Vita” è una parola che in questo disco ricorre spessissimo. Quanta vita degli ultimi cinque anni c’è in Gara 7?
Tantissima. Per me è stato un periodo un po’ difficile, nella mia sfera personale sono successe molte cose che mi hanno condizionato e allo stesso tempo ho passato un periodo in cui non mi sentivo ispirato. Nella mia vita questa cosa della musica è fondamentale, e quando ho sentito che stava venendo a mancare mi sono sentito perso. La gara di cui parlo è riuscire a chiudere un disco che mi soddisfacesse e riuscire a ritrovare un equilibrio con me stesso.

Quindi è questo il match della vita…
Sì, è la ricerca che ho fatto per trovare un po’ di pace, per sentirmi sereno. Quando andavo in studio e tornavo a casa insoddisfatto addirittura mi chiedevo se fosse ancora questa la cosa che doveva avere un focus centrale nella mia vita.

Però, come dici in Ultimo tiro, non sei né liricamente né clinicamente morto, e infatti sei tornato con un album denso e intenso.
Assolutamente. Molti in questi anni mi hanno scritto per chiedermi che fine avessi fatto, e io non ho mai dato per scontato il fatto che ci fossero delle persone che mi stavano aspettando, soprattutto in mondo che è sempre più veloce. Io poi non sono un artista che ha un pubblico enorme, ma quelli che mi seguono sono davvero affezionati. Mi hanno scritto con una cadenza fissa per chiedermi se avessi un album pronto. Quella frase è proprio riferito a questo, a tutte quelle voci che mi chiedevano che fine avessi fatto.

E com’è stato vedere a Palermo e Milano le persone che erano lì per ascoltarti a scatola chiusa?
Questa cosa per me è stata bellissima. Non è scontato che le persone ti comprino i dischi sulla fiducia, senza un singolo fuori e senza nemmeno aver letto la tracklist. Molti di quelli che ho beccato fuori dopo gli showcase mi hanno detto che da quando era uscito Memory la loro vita è cambiata perché sono cresciuti, magari non sono più adolescenti, non vanno più a scuola ma lavorano. Eppure sono ancora qui. Io stesso nel corso degli anni molti artisti che mi ascoltavo da ragazzino me li sono persi, quindi mi sento molto fortunato. Parlare dei propri demoni e avere gente così attenta a quello che dici è una benedizione.

E perché per te questo disco non è un ritorno?
Perché molte cose sono cambiate. Memory è un disco a cui sono tanto affezionato, ma per me ogni progetto è un passo zero. Quando dico che non è un ritorno e mi sento fresco come Kobe nel ’99 intendo proprio questo. Negli ultimi anni ho cambiato città, mi sono trasferito di nuovo al Nord, ho lavorato con gente nuova e ho cercato di assorbirne tutta l’energia. Questo mi ha fatto tanto bene.

Forse è solo una mia sensazione, ma ascoltando il disco mi sembra che i pezzi siano stati scritti in un tempo molto dilatato, a distanza tra loro. È così?
Sì, è vero. Ci sono pezzi che risalgono anche a fine 2020 e altri che ho scritto proprio negli ultimi mesi, poco prima della consegna del disco. I primi pezzi che ho scritto sono Dovrei, Via da qua mentre la più recente è Ultimo tiro, che poi è un po’ un sunto di tutte le tracce precedenti.

Quanto è difficile emotivamente fare un disco in cui metti dentro delle cose così personali come hai fatto tu?
Mettere così tanta vita privata è una cosa molto difficile, però è la cosa che personalmente mi colpisce di più quando ascolto un artista. Non ho quella capacità di sedermi e dire “okay, adesso faccio il pezzo per la radio o faccio la hit”. Quello è un talento che io non ho. Devo per forza scavare nella mia vita per scrivere, quindi se sto passando un periodo intenso automaticamente quelle cose finiscono nei pezzi che sto scrivendo. A volte penso che vorrei avere la capacità di uscire dalla mia mente e scrivere in modo non per forza così autobiografico, ma non ce la faccio mai! Anche se mi piacerebbe scrivere per altri per staccare un po’ da quello che è il mio vissuto.

E ce la faresti? Considerato quanto è personale la tua scrittura…
Eh, sarebbe una bella sfida e anche un modo per mettermi alla prova. Anche se mi sono formato pensando che se parlo di quello che vivo veramente ho più possibilità di arrivare alle persone.

Hai citato prima Ultimo tiro, voglio partire dalla primissima frase: “La prendo troppo sul personale, le aspettative sono alte”. Le tue o quelle degli altri?
Le mie su me stesso. Spesso sono troppo severo con me stesso, e questo è anche il motivo per cui ho perso tanto tempo quando non ero ispirato. Invece ho capito che la musica va buttata giù senza pensarci tanto. Io mi aspetto sempre molto da me, e finisco ad essere troppo duro.

Sei alla continua ricerca della perfezione?
Sì, anche se in questo disco ci sono pezzi che ho scritto di getto, tipo Mare d’inverno. Io cerco sempre di essere profondo e allo stesso tempo curare la tecnica, che è una delle cose che amo del rap. Ecco, in quel caso mi sono messo a scrivere di pancia e all’inizio nemmeno mi piaceva troppo, poi quando l’abbiamo mixato e masterizzato è stato veramente figo e mi ha fatto cambiare idea, tanto che me ne sono innamorato. Mi sono reso conto di quanto a volte io pensi troppo alle cose quando invece serve solo istinto puro.

Quindi grazie a Gara 7 hai imparato anche qualcosa di nuovo su di te.
Esatto, e infatti non vedo l’ora di tornare in studio proprio con un altro mood, cercando anche di divertirmi che è una cosa che un po’ mi manca. Questo disco è stato veramente difficile da buttare giù.

Johnny Marsiglia, foto di Andrea Bianchera

Durante lo showcase a Milano l’hai definito l’album in cui ti sei messo più a nudo in assoluto. È il tuo disco della maturità?
Spero più che altro che sia l’inizio di tante cose. Ora il mio obiettivo è non fermarmi per altri cinque anni, essere più presente, andare in studio più spesso e scrivere con un approccio più leggero. Però questo è un disco che andava fatto per una questione mia di equilibrio mentale. Sono molto contento perché di ascolto in ascolto mi ha convinto sempre di più, anche per quanto riguarda tutto il lavoro che abbiamo fatto sulle strumentali. Io ho dato tanti miei input ma ho seguito tanto anche le idee di chi ha lavorato con me. Rispetto a Memory è sicuramente un album con cui mi sono messo più alla prova. Ho creato un nuovo team con cui lavorare e anche quella è stata una cosa importante.

Anche perché fino a Memory hai sempre fatto dischi che erano quasi dei joint album, mentre qui c’è una schiera più variegata di produttori però si sente allo stesso tempo molta coesione.
Sì, ci sono Yazee e Swan che sono i main producer, poi Goedi, i 2nd Roof, Estremo, Strage e Crash X. Diciamo che se vivi a Milano non puoi che cercare di mischiarti ad altre realtà e stare in studio con tante persone è una cosa che ti fa crescere e ti fa capire con chi puoi trovarti veramente bene in studio, è importante che si crei un’alchimia umana oltre che artistica. Poi lavorare con me non è facile.

Come mai?
Perché ci sono stati momenti in cui non ero proprio preso bene. Però sono stati molto bravi a capirmi anche quando non avevo troppo le idee chiare, hanno avuto tanta pazienza con me.

Toglimi una curiosità: ti ha ispirato in qualche modo l’ultimo album di Kendrick Lamar?
Tantissimo, davvero. Lui è sempre stato un’ispirazione per me, già dal 2011 quando l’avevo scoperto. Kendrick ha dei testi che a volte ti fanno venire voglia di cestinare tutto quello che hai fatto. Una cosa che mi piace tantissimo di lui e che ho messo anche nel mio disco è che si apre così tanto che rischia anche di dare una visione non troppo positiva di sé.

Ammettere di essere invidioso o di essere stato razzista non è una cosa da tutti, e a me mette i brividi. La seconda strofa di Jeff ad esempio inizia con “Eravamo tutti uniti, poi il nostro ego ci ha divisi“, quindi non dico che ci ha divisi qualcosa di cui io stesso non sono responsabile. Riconoscere di non essere sempre nel giusto e di non essere perfetti per me è una cosa bellissima ed estremamente umana, e nei testi di Kendrick c’è tanto.

In Non è un movie infatti dici “Aprirsi nei testi costa e io non ho versi gratuiti”.
Esattamente. Poi i rapper devono sempre un po’ mostrarsi sicuri, avere quell’atteggiamento da “io sono il migliore”. Questa cosa come ti dicevo prima a me è venuta a mancare negli ultimi anni, e infatti quella componente nel disco non c’è.

Senti Johnny, voglio chiudere questa chiacchierata come tu hai chiuso Gara 7: “Questo potrebbe essere l’ultimo tiro, l’ultimo giro, l’ultimo ballo, l’ultimo disco. Dopo tutto dare tutto è la condizione che preferisco nel momento decisivo. Sono vivo”. Non ti faccio nessuna domanda, ti lascio carta bianca.
Pensa, questa era proprio una della frasi che mi sarebbe piaciuto spiegare…

Vai.
Diciamo che un po’ si lega a quella cosa che ti dicevo sul mio approccio da perfezionista. Se sono rimasto fermo cinque anni è stato anche perché non avevo tra le mani un disco che mi convincesse a pieno. Mentre stavo scrivendo stavo combattendo un po’ questa idea che la musica non mi stava dando le soddisfazioni e le emozioni che volevo. Il mio pensiero fisso era “cerco di dare tutto perché non si sa mai quello che può succedere”. Poi dico quella frase ma allo stesso tempo in Prime dico che non è un ritorno, quindi sì, Gara 7 per me è veramente una rinascita.


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