“Everything I Thought It Was”: Justin Timberlake ha scritto il suo “Eras album”
Sei anni di lavoro e cento canzoni scritte tra cui scegliere, il sesto album è frutto di un viaggio introspettivo in cui l’artista fa i conti con il proprio status di star, senza rinunciare al divertimento del dancefloor. Forse il suo lavoro migliore da “The 20/20 Experience”
«Who cares if you get lonely / Long as you’re famous» canta Justin Timberlake nella prima traccia del suo nuovo album Everything I Thought It Was. Memphis non è un titolo né tantomeno il nome di un luogo qualsiasi: è la sua città natale. Danja disegna una base trap sulla quale Justin parla del perseguimento del successo e di quanto si è disposti e costretti a perdere per la celebrità. Era il 2018 quando usciva il suo ormai penultimo lavoro discografico Man of the Woods. Dopo quasi sei anni in cui ha scritto e riflettuto sulla propria carriera, Timberlake torna con un concept album variegato, in cui riunisce anche gli NSYNC. Sebbene accenni solamente certe tematiche, il disco racchiude gran parte del suo trascorso artistico. Nel suo non badare troppo all’omogeneità – difficile mantenerla con 18 canzoni – potremmo definire Everything I Thought It Was come l’ “Eras album” di Justin Timberlake.
Il dancefloor rimane l’ingrediente imprescindibile
Parlando con Zane Lowe di Apple Music 1 la popstar ha spiegato che il suo sesto album, pur partendo da una sguardo rivolto alla strada compiuta finora, non è un disco serioso. Il divertimento è garantito e, dopo il preambolo soft, si scende subito in pista da ballo con Fuckin Up the Disco. Pop ed elettronica, con la collaborazione di Martin Garrix, che ricordano il Justin Timberlake del secondo album, con un tocco moderno provocato da un appena accennato utilizzo di autotune.
Si rimane sul dancefloor per gran parte della prima parte del disco con qualche picco interessante qua e là. C’è il basso funky che costruisce il ritmo di No Angels, brano che descrive il classico mood da discoteca. Oppure Play, uno dei pezzi dell’album in cui Justin Timberlake dà il meglio di sé con un ritornello che rimane in testa – potrebbe diventare virale – e un groove irresistibile. Un altro esempio lo si trova nella seconda metà, quando subentra Favorite Drug: una canzone che unisce l’estetica musicale dei Daft Punk alla smoothness del Timberlake di primi anni Duemila. Lo stesso che cantava la hit Señorita citata sul finale del pezzo.
«Credo che il titolo dell’album sia nato da lì, da tutto quello che pensavo che fosse. Lo stavo suonando per le persone intorno a me. Mi dicevano: ‘Oh, questo suona come tutto ciò per cui ti conosciamo’. E poi un altro mio amico ha detto: ‘Questo suona come tutto ciò che pensavo di volere da te’» ha raccontato ad Apple Justin Timberlake. Everything I Thought It Was racchiude davvero gran parte di quanto ci si poteva attendere dalla popstar: questo ne rappresenta il principale difetto e il principale difetto.
Justin Timberlake e Timbaland di nuovo insieme nel nuovo album
Nell’album che rappresenta lo spettro elettromagnetico del pop di Justin Timberlake non poteva mancare il fido Timbaland. Il producer e rapper statunitense ha collaborato alla scrittura di tre brani molto diversi tra loro. Il primo che conviene citare, tanto per mantenere un minimo di storytelling, è Infinity Sex: ci defiliamo dal dancefloor e lasciamo la discoteca in buona compagnia e con ancora in testa il giro di basso funky. Ci troviamo in una sala d’hotel e ça va sans dire. A un brano senza infamia e senza lode, interessante per i violini disco che lo colorano, va paragonata l’ambiziosissima Technicolor. Due canzoni contenute in una traccia di sette minuti: R&B e soul per una ballad d’amore in cui Justin si lascia andare ai virtuosismi del suo falsetto.
Come di solito accade, le cose migliori stanno nel mezzo. Ironia della sorte proprio la nona traccia Love is War, quella esattamente a metà disco, è la migliore prova della coppia Timberlake-Timbaland tra quelle di Everything I Thought It Was. Non è un delitto dire addirittura dell’intero disco. Un brano sugli effetti distruttivi dell’amore corredato da una base minimale puntellata da accordi di synth anni ’80. La perfetta sintesi tra ciò che la popstar è stata e può ancora essere.
L’amore è una guerra
Che Everything I Thought It Was riprendesse il tema dell’amore e delle relazioni con donne allo stesso tempo distruttive e salvifiche lo si era capito dai primi due singoli estratti. Selfish, interessante per le soluzioni armoniche del ritornello, e Drown, un’altra delle hit del disco, sembrano scritte appositamente per essere eseguite l’una dietro l’altra. Drown è il migliore dei due singoli perché è come se fosse la versione aggiornata al 2024 di What Goes Around…It Comes Around. Il Justin Timberlake dell’album FutureSex/LoveSounds con le influenze degli anni recenti.
Tra le 18 tracce ci sono diversi momenti dimenticabili e alcuni riempitivi. Se Liar in featuring con Fireboy DML convince a metà, molto meno appetibili per un secondo ascolto sono Flame, Imagination e What Lovers Do. Talvolta però alcuni esperimenti, o forse sarebbe meglio definirle variazioni inaspettate, stupiscono e sono una boccata d’aria fresca. Tra queste c’è la ballatona piano, voce e archi intitolata Alone. Un brano dal suono e dal canto classico che, in mezzo all’eroticità sexy delle altre tracce, spicca e offre sfumature diverse.
Tra nuovi sentieri e l’atteso ritorno degli NSYNC
Se parliamo di sperimentazioni nel vero senso della parola, allora Sanctified è l’esempio più calzante, oltre che il brano migliore del disco. L’album di Justin Timberlake non vive di cambi di ritmo veri e propri. C’è un momento che spicca di netto su tutti gli altri ed è quello del feat. con il rapper Tobe Nwigwe. Il ritornello rock si sposa alla perfezione con gli accordi di pianoforte e i cori gospel delle strofe. Torna quell’introspezione con cui si era aperto il disco, ma questa volta l’abilità lirica, piena zeppa di riferimenti biblici, dell’artista di Houston elevano il pezzo. Con la precedente e già citata Love is War rappresenta l’apice di Everything I Thought It Was.
La traccia più attesa dell’album è di certo quella della reunion degli NSYNC. Justin Timberlake la posiziona prima del finale, un punto significativo della tracklist. Se negli anni Duemila, con i CD, skippare ben sedici tracce poteva rappresentare una scocciatura, oggi con Spotify siamo pronti a scommettere che in molti si fionderanno ad ascoltare Paradise prima di tutto il resto. Ma come suona alla fine questo tanto atteso ritorno? Un brano emozionale che tiene fede al titolo e al concept del disco: tutto ciò che i fan si aspettavano. Una chitarra elettrica pulita contribuisce all’atmosfera eterea mentre i cinque componenti della band cantano la nostalgia. «Oh, we’ve been down a long, long road now / Look at where we are / We were chasing after hopes and dreams and we’re still under the stars».
La traccia conclusiva Conditions si ricollega perfettamente alla precedente. Justin Timberlake, accompagnato da un arpeggio di chitarra, si lascia finalmente andare al brano più personale e introspettivo dell’album. In contrapposizione all’enfasi e alla patina dorata della celebrità descritte in Memphis, nel finale viene esaltata l’umanità. Justin si libera del costume di Batman e della forza di Superman, ora si sente come Bruce Wayne e Clark Kent. «Qualche volta hai bisogno di mettere la retromarcia per avanzare» recita un verso del pre ritornello. Ed è quello che ha fatto Justin Timberlake con questo nuovo album: si è guardato indietro per ritrovare la forza di andare avanti.