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Michael Stipe e le imperfezioni di un’epoca difficile nella sua mostra a Milano

L’ex cantante dei R.E.M ha presentato la sua prima mostra che è visitabile fino al 16 marzo al’ICA Milano, tra ritratti fotografiche e installazioni. Un viaggio interessante nel suo lavoro artistico che è anche un modo personalissimo ma molto puntuale di leggere la nostra contemporaneità

Autore Tommaso Toma
  • Il13 Dicembre 2023
Michael Stipe e le imperfezioni di un’epoca difficile nella sua mostra a Milano

Michael Stipe

A Milano via Orobia era e rimane forse ancora per poco una zona di piccoli opifici e fabbrichette, alcune sapientemente sistemate e riqualificate. Da Largo Isarco si capisce quanto sia cool questa zona. Si staglia infatti la Fondazione Prada, che brilla per la sua magnificenza architettonica. Mentre un poco più in fondo, entrando in un cortile che sa ancora di autentica Milano del fare manuale, c’è uno spazio che accoglie un edificio ex industriale lasciato nel suo aspetto più autentico. L’ICA Milano. È un istituto per tutte le arti, un organismo per la cultura contemporanea, fondato nel 2018 e diretto dal sempre solare Alberto Salvadori. È questo il luogo di Milano che ha scelto la superstar del rock Michael Stipe. Che dopo aver militato per decenni con i R.E.M si è concentrato sulla fotografia (passione che ha sin dalla adsolescenza) ma non solo.

La mostra di Micheal Stipe tra installazioni e fotografie

Si intitola I have lost and I have been lost but for now I’m flying high (Stipe ama i titoli lunghi da quando non fa più solo musica) e appena entri nella fredda struttura dell’ICA a sinistra ti ritrovi davanti all’installazione seriale A Cast of the Space under my Cheap Plastic Chair (a proposito ti brevità nella titolazione). Un centinaio di teste di gesso, a terra disposte per file, prodotte a mano da Michael Stipe. Una serialità interrotta da alcuni totem costruiti con delle sedie industriali di plastica.

In questa installazione, come ha detto Stipe in una bellissima conversazione con il curatore Salvadori, «C’è la componente artigianale, le teste che sono belle nella loro imperfezione. L’unico colore presente è l’inchiostro di china che s’incontra con la componente industriale, le sedute in plastica. Ci troviamo in un vorticoso spazio intermedio tra passato analogico, futuro digitale e travestimenti analogici e digitali. Questa confusione può far girare la testa e può essere tranquillamente distruttiva». Quest’opera per l’artista di Athens è anche un omaggio alle opere dello scultore romeno Constantin Brâncuși. Ma anche a Marisa Merz, artista italiana, che è stata una importante esponente della corrente dell’arte povera.

Si sale poi al piano superiore dove in una piccola stanza, quasi una nicchia, dove splendono i 121 Plaster Head, altra installazione dove per terra sono disseminati dei cappellini di stessa taglia e diverse tonalità fluo con scritte del tipo: Vexatious, Be Gentle, A beautiful World. Nell’ampia sala accanto c’è invece l’installazione di ipotetiche copertine di libri con nomi di grandi autori del passato. E infine, quasi defilate, scorrono lungo uno stretto corridoio le foto che compongono l’ultimo volume sempre uscito per Damiani Books, Even The Birth Gave Pause.

Il rapporto di Michael Stipe con l’Italia

Per Michael Stipe il rapporto con l’Italia è di lunghissima data. Come ha confessato durante la conferenza stampa che lunedì ha tenuto al Museo del Novecento di Milano. A partire dalla fascinazione per il suono della nostra lingua e i viaggi alla conoscenza delle bellezze del Belpaese. Qualcuno di voi si ricorderà anche che i R.E.M fu la prima grande rock band americana a suonare in uno stadio in Sicilia, precisamente al Cibali di Catania 6 agosto del 1995. Merito anche dell’amicizia che Stipe strinse negli anni ’90 con il compianto produttore discografico Francesco Virlinzi. E poi come non ricordare il lungo sodalizio di Stipe con Damiani Books, la casa editrice bolognese e autentica eccellenza italiana nell’editoria di fotografia, che pubblica i volumi di foto di Michael Stipe.

«Per rappresentare i tempi difficili che viviamo scelgo una pianta robusta e non un fiore»

Tra i tanti ritratti di personaggi conosciuti e non spicca la foto di una rosa nera che mi fa ricordare quelle bellissime calle che fotografava un artista molto amato da Stipe, Robert Mapplethorpe. Quei fiori magnifici e perfetti fotografati da Mapplethorpe negli anni ’80 sembravano una rappresentazione plastica del senso di perfezione che si anelava in quel decennio. E durante la sua visita a Milano a Michael Stipe ho chiesto, visto che da sempre è stato anche attratto dal giardinaggio, di scegliere quale fiore potesse invece rappresentare i tempi che viviamo: «Sono tempi molto, molto difficili. Forse sceglierei una pianta più che un fiore. Una pianta che cresca robusto e duri nel tempo». Sembra quasi sconsolato nel dire queste parole ma subito dopo gli vedi gli occhi brillare di nuovo di curiosità e positività.

A Milano Michael Stipe ha poi tenuto a sottolineare che da sempre si sente un artista “imperfetto”. Un artista che conta sempre sul dialogo e la collaborazione con gli altri per realizzare le sue opere. Come in pratica aveva fatto dialogando con i membri della sua storica band ai tempi, quando vendeva milioni di dischi. «Sono un uomo con un ego spropositato. Ma per me realizzare la mostra è stato come allontanare il mio cervello pensante e il mio ego per un tempo sufficiente affinché il mio istinto prendesse il sopravvento. E il mio cervello e il mio ego non hanno ostacolato il mio istinto».

Michael Stipe avrà pure un ego spropositato, ma lo amiamo anche perché ha scelto un luogo come ICA e lavorare accanto a un curatore di buon gusto come Alberto Salvatori, piuttosto che finire in un museo à la page o esageratamente lussuoso. Continuiamo ad amarlo anche se non canta più a squarciagola Losing My Religion. Anche se… il 2024 dovrebbe essere l’anno buono per il suo album di debutto da solista.

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