“This Is The Sea”, il capolavoro dei Waterboys: merito di un vecchio fienile e di un libro di incantesimi
È uscita una magnifica ristampa, super espansa, del capolavoro della band irlandese di Mike Scott e ribattezzata “The Waterboys 1985”. Dal prezioso libro di oltre 200 pagine, in esclusiva per noi, pubblichiamo un estratto che fa capire perfettamente l’effervescenza creativa del leader in quel periodo storico
Gli Waterboys sono ancora tra noi, grazie alla presenza sempre carismatica del loro leader Mike Scott. Se torniamo indietro di circa 40 anni, furono considerati dalla stampa e dal pubblico, soprattutto europeo, una delle band più interessanti del rock anglosassone nei favolosi anni ’80. E se qualcuno agli inizi li aveva sottovalutati, pensando che fossero l’ennesimo gruppo che tentava di seguire le gesta degli U2 o Simple Minds, si sbagliava di grosso. La caratura dello scozzese di Edimbugo Mike Scott, già autore tra il ‘79 e l’81 di una manciata di singoli con gli Another Pretty Face e di un singolo a nome Funhouse, fu evidente sin dai primissimi lavori con la sua band Waterboys. Come l’omonimo mini LP di debutto che fu registrato tra il dicembre dell’81 ed il novembre dell’82, e pubblicato solo nel 1983.
La ristampa deluxe
Un disco, quello dei Waterboys, di scarna e acerba bellezza, che diede già luce al talento di Mike Scott – ricordiamo la magnifica A Girl Called Johnny – anche se ancora lontano dal suono ricco e d’impatto dei successivi A Pagan Place e soprattutto di This is the Sea. Proprio questo è l’album oggetto della mastodontica ristampa deluxe. Un box-set edito dalla Chrysalis con 6 CD tra demo, brani e live inediti registrati in quel periodo. E curato personalmente da Mike Scott, che accompagna l’ascoltatore attraverso 95 brani – di cui 64 inediti – e un bellissimo libro di 220 pagine dal quale abbiamo in esclusiva questo estratto scritto proprio da Mike Scott che ci racconta dettagliatamente il momento epifanico della creazione delle prime canzoni.
Prima di leggere le parole di Mike Scott, però, lasciateci omaggiare anche la figura di Karl Wallinger che fu uno dei componenti più importanti dei Waterboys, guarda caso fino a This Is the Sea, prima di iniziare l’avventura discografica con i World Party, sua creatura musicale ricca di belle canzoni. Karl è venuto a mancare a soli 66 anni, ma il suo tocco in This Is the Sea rimane indelebile come quell’incipt al piano, melanconico e sincopato di A Girl Called Johnny.
L’estratto di Mike Scott
Le sessioni di registrazione di This Is The Sea iniziarono ufficialmente la mattina del 28 febbraio, quando mi presentai all’appartamento di John Brand a Holland Park e lui ci accompagnò attraverso il sud-est dell’Inghilterra fino al Park Gates Studio di Battle, vicino ad Hastings. Park Gates era una fattoria a un paio di miglia di distanza dal luogo del trionfo di Guglielmo il Conquistatore, il duca di Normandia, nel 1066. Lo studio era nel fienile ristrutturato, uno spazio lungo dal soffitto alto. Con un pianoforte dal suono meraviglioso al centro e una fila di cabine di amplificazione chiuse ai lati che davvero ricordavano le stalle. Come forse un tempo erano state.
Il vecchio fienile come studio di registrazione di Mike Scott e i Waterboys
La sala di controllo aveva una finestra, e il fatto che entrasse la luce naturale fu un grande vantaggio. Lo avevamo prenotato per tre settimane, alla fine delle quali, immaginavamo, l’album sarebbe stato registrato e pronto per il mixaggio. Che dolce follia! Il mix finale sarebbe durato quattro, quasi cinque mesi, e le registrazioni sarebbero continuate in molti altri studi fino a metà luglio. Tra le ragioni ci sarebbero i cambiamenti di produttore e musicista e l’enorme numero di canzoni e idee che avevo, molte più del necessario. Con una conseguente abbondanza di possibilità su cui lavorare.
“Il libro delle ombre dalle pagine bianche divenne il mio talismano”
Sin dal mio viaggio a New York, in gennaio, cominciai a scrivere le mie canzoni su un grande libro con la copertina nera che avevo trovato in un negozio dell’occulto. Si chiamava Magickal Childe, ed era una bellissima e strana “grotta” dalle finestre che si affacciavano in una strada laterale di Manhattan. Gli scaffali erano carichi di oggetti. Qui dentro c’erano teschi rimpiccioliti, incenso, candele, spade, copricapi di corno, bottiglie di radici, erbe e ramoscelli per rituali o incantesimi. E ancora mantelli e cappucci da stregoni e alcuni libri seriamente fuori dal comune. Oltre anche i soliti limiti esterni di ciò che avevo letto.
L’immagine del negozio, riprodotta sui cataloghi e sui volantini, era un piccolo fauno Pan. Sul bancone c’era un avvertimento sulla legge del karma, lì per dissuadere stregoni loschi dal prendere in giro i destini degli altri. Mi ricordo che perlustrai il negozio con curiosità. Finché il mio sguardo non si posò su un enorme libro nero con copertina rigida senza scritte sulla copertina. Quando l’aprii, con mia grande sorpresa, era pieno di pagine bianche. Il ragazzo che gestiva il negozio mi spiegò che si trattava di un Libro delle Ombre in cui una strega scrive i suoi incantesimi. Beh, anche le canzoni erano una specie di incantesimo e l’idea di scriverle in questo Libro delle Ombre mi allettava. Così ho stanziato i nove dollari e sessanta richiesti.
Quando il libro era pieno di canzoni diventava vivo
L’ho portato a casa a Londra e ho iniziato a riempirlo con le mie ultime canzoni. È stato bello avere i miei testi e le mie idee in un libro invece che in fogli sciolti e ritagli di carta. E c’era un effetto bonus inaspettato, perché quando il libro era pieno di canzoni diventava vivo, un oggetto di potere. Dovevo solo aprire le sue pagine per entrare nel flusso e nell’assorbimento della mia scrittura. L’esperienza fu come accendere una luce.
Il libro divenne un talismano, contenente la chiave per la musica e il futuro di The Waterboys. E mi avrebbe accompagnato in ogni fase della realizzazione di This Is The Sea. Disteso sul pavimento mentre scrivevo. Accanto a me sui sedili posteriori di un centinaio di minicab che presi per raggiungere gli studi di Londra nella primavera dell’85. O steso aperto sul mixer, con le istruzioni esposte, mentre l’album veniva affinato.
Oppure fungeva da tavolo mentre scrivevo, e addirittura strappai alcuni fogli per farci degli spinelli. Accanto a ogni testo, ricoprivo la pagina con strani geroglifici, scritti con la mia minuscola calligrafia. E ci trovavi scritti degli strani elenchi di strumenti e note che descrivevano il processo di registrazione previsto o come immaginavo il suono, a volte accompagnati da disegni.
Un processo creativo unico e illuminante
Oltre ai testi e agli arrangiamenti delle canzoni, il libro era pieno di versi sparsi, titoli inutilizzati, poesie, sogni, scalette di futuri concerti. Possibili tracklist di album. Ma anche numeri di telefono di musicisti, idee per le illustrazioni e ogni sorta di promemoria e note per me. Come ad esempio : “Crea nuova musica rock/folk acustica elettrica del country freddo. Frastagliata o ondulata come la terra (ricorda che la musica folk corrisponde nella forma e nella forma alla terra da cui scaturisce). Acustica a cinque corde (senza “Sol”), crea un groove pagano di batteria come la grancassa di Be My Baby, ricrea il suono delle rocce e delle caverne”.
E poi scrivevo dei memorandum per le mie liriche, del tipo: “resuscita la narrazione in una forma poetica, impressionistica e selvaggia”. “Esprimi il tuo linguaggio e non semplificare”. Lavoravo nel mio appartamento nel seminterrato, nel lungo soggiorno con una porta scorrevole con tende di velluto a un’estremità e che si apriva su un piccolo giardino. Le pareti erano decorate con foto di nativi americani e tanto rock’n’roll. Toro Seduto che medita, Iggy Pop che ringhia, Bob Dylan che sorride sopra la sua chitarra. E sul caminetto era accatastata una parete in bilico di centinaia di cassette dei Waterboys. Registrazioni di concerti, sessioni radiofoniche, demo, lavori in studio in corso.
Man mano che ogni nuova canzone si evolveva, assumeva una vita propria e mi ritrovavo travolto dal suo sapore e dalla sua personalità. Con la sensazione di essere avvolto nella nebbia o nel profumo, o come di essere innamorato. Per giorni vivevo dentro l’ultima canzone, e quando mi avventuravo nel mondo per comprare pane e latte al negozio all’angolo o più lontano, a Ladbroke Grove o Portobello Road, lo facevo pensando alle mie canzoni, alle sue melodie.
Gli accordi erano cruciali
Tutto scorreva incessantemente nella mia testa. Idee che mi spuntavano in mente in ogni momento, così che era essenziale avere sempre carta e penna a portata di mano. Ho scritto nelle tonalità degli accordi che amavo di più – solitamente in Re, La minore, Mi minore e Sol. Ma non tutte queste erano le tonalità migliori per la mia voce. E di conseguenza alcune canzoni avevano un tono troppo alto per poterle cantare facilmente.
Non avevo ancora incontrato pianoforti digitali su cui potessi mantenere le forme degli accordi preferite, abbassando la chiave. Né avevo imparato a usare i capotasti per fare lo stesso con la chitarra. E semplicemente cambiare tonalità e suonare accordi diversi non era per me attraente. Perché le forme degli accordi che avevo scelto erano cruciali per la musica, quasi sacre. Ognuna con il proprio colore e le proprie immagini nella mia mente.
Il sol era regale e dorato. Il re un proclama squillante da un’alta torre. In minore l’accordo di Pan, bosco e natura, attraversato dai colori della terra e della collina. Il fa evocava il freddo degli elementi, la neve, il gelo e il ghiaccio. Non li cambierei; non ci pensai nemmeno. Di conseguenza in molte delle prime canzoni dovevo sforzarmi per raggiungere le note, come in A Pagan Place cantando troppo in alto per la mia voce, la gente pensava che questo fosse il mio stile.
L’arte di spostare l’intonazione
È stato solo più tardi, dopo aver visto i musicisti tradizionali irlandesi spostare le tonalità a metà accordata con la chitarra o i capotasto del bouzouki, che ho imparato l’arte di spostare l’intonazione di una canzone sulle chiavi che si adattavano alla mia voce. La realizzazione di ogni testo iniziava con una frase, un titolo o un distico. Una volta che uno di questi faceva nascere un’idea, la canzone cominciava a venire fuori. Un verso suggeriva il successivo, di solito innescato dal richiamo della rima alla fine, e spesso trovavo che i versi arrivassero facilmente come una successione di doni giusti che cadono nella mia mente, o foglie che cadono.
Altre volte ho dovuto combattere. Se una riga o una rima non arrivavano rapidamente alla mia immaginazione, frugavo nella mia mente, scorrendo l’alfabeto dalla a alla z provando ogni lettera come l’inizio di una parola con la rima di cui avevo bisogno attaccata alla fine, scrivendo posizionarli sulla pagina, quindi scegliere i preferiti e provarli nel contesto.
La musica come guida di Mike Scott e i Waterboys
Man mano che la scrittura si sviluppava notai una cosa meravigliosa: la musica mi diceva cosa fare. Ogni volta che un’idea era giusta sentivo nelle mie viscere una sensazione di via, una sorta di certezza dal sapore inconfondibile. Se non provavo questa sensazione, il trucco era continuare a provare idee diverse finché non ci riuscivo. E se un’idea era sbagliata o mi mancava qualcosa o una canzone aveva bisogno di una nuova sezione a cui non avevo ancora pensato, provavo una specie di prurito, un piccolo intoppo dentro che mi diceva di continuare a lavorarci su. Ho dato tutto quello che avevo, cantando a tutto volume, anche facendo esplodere la mia voce. Ne è valsa la pena.
Il processo ha rivelato quali canzoni funzionavano e quali no, i testi hanno trovato le melodie e le melodie hanno trovato i testi, ho scoperto una nuova espressione nel mio canto e i demo avevano un sapore, una qualità rarefatta unica per le registrazioni fatte su quei due giorni. Nient’altro durante la realizzazione di This Is The Sea, o in seguito, avrebbe avuto la stessa intensità.loro leader Mike Scott, ma se torniamo indietro di circa 40 anni, furono considerati dalla stampa e dal pubblico, soprattutto europeo, una delle band più interessanti del rock anglosassone nei favolosi anni ’80. Se qualcuno agli inizi li aveva sottovalutati, pensando che fossero l’ennesimo gruppo che tentava di seguire le gesta degli U2 o Simple Minds, si sbagliava di grosso. La caratura dello scozzese di Edimbugo Mike Scott, già autore tra il ‘79 e l’81 di una manciata di singoli con gli Another Pretty Face e di un singolo a nome Funhouse, fu evidente