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Unsafe & sound: strani suoni del cinema horror

Il matrimonio tra musica e film horror è ricco di intrecci impronosticabili e storie bizzarre. In vista di Halloween, ve ne raccontiamo qualcuna

Autore Billboard IT
  • Il28 Ottobre 2023
Unsafe & sound: strani suoni del cinema horror

Dal film "Halloween" di John Carpenter

Cosa sarebbe il cinema di paura senza quei suoni che alimentano la tensione, enfatizzano una pugnalata sotto la doccia, accompagnano il passo felpato dell’assassino mascherato o dissimulano quiete prima di una tempesta rosso sangue? Il lungo e proficuo matrimonio tra musica e film horror è ricco di intrecci impronosticabili e storie bizzarre. In vista della notte più spaventosa dell’anno, ve ne raccontiamo qualcuna.

The sound of metal

Lo immaginò quando era ancora uno studente universitario dedito al teatro sperimentale, realizzandolo prima di compiere 29 anni. Tetsuo: The Iron Man (1989) del regista giapponese Shin’ya Tsukamoto è uno dei cult assoluti del cinema orientale.

Un viaggio in allucinato bianco e nero. Fonde il body horror di matrice cronenberghiana con la fantascienza. Segue la trasformazione del protagonista in un grottesco ibrido di carne e metallo, frutto della perversa vendetta di un misterioso sado-sessuomane chiamato “The Metal Fetishist”.

Come se non bastassero la trama e lo schizofrenico montaggio che accompagnano la mutazione, che culmina nella trionfale scorribanda di un gigantesco fallo-trivella di puro ferro, Tetsuo raggiunge una dimensione allucinata superiore grazie alla nevrotica colonna sonora techno-industrial composta da Chu Ishikawa. Costui diventerà in seguito inseparabile creatore di suoni per Tsukamoto e per Takashi Miike, l’altro guru del cinema estremo giapponese.

Ishikawa era compositore e leader dei due gruppi industrial Del Eisenrost e Zeitlich Vergelter. Realizzò dei suoni frastornanti, a tratti insostenibili, binario parallelo e specchio dell’indecifrabile e non diagnosticabile metallizzazione del protagonista di Tetsuo. Una catena di montaggio di una fabbrica metallurgica nippo-tedesca dove tra l’incudine e il martello ci sono i neuroni di chi guarda. Il martello pneumatico sonoro non ha pietà dal primo al sessantasettesimo minuto. Un rave tecno-horror da cercare su grande schermo e grande cassa.

I Goblin, da Profondo Rosso al Gioca Jouer

Nel glorioso big bang creativo del cinema di genere italiano anni ‘70, nessuno come Dario Argento ha beneficiato tanto dalle musica che accompagnava i suoi film horror.

Nel 1975 esce Profondo Rosso, apogeo dell’orbita argentiana. Prima di allora, Claudio Simonetti e Massimo Morante non sono ancora i Goblin, la band prog rock che diventerà celebre in tutto il mondo. Si chiamano Oliver. Nonostante un disco prodotto a Londra con Eddie Offord (già accanto a Yes, Gentle Giant ed Emerson, Lake & Palmer), non hanno ancora fatto il salto.

Proprio durante la registrazione di quel disco, Carlo Bixio, direttore e produttore della romana Cinevox Record, presenta Simonetti a Dario Argento e suggerisce una collaborazione per il film che Argento stava realizzando.

È dopo il travagliato addio al progetto Profondo Rosso del jazzista Giorgio Gaslini che gli Oliver, ribattezzati Goblin forse proprio per l’influenza horror ricevuta in quel periodo, cominciano un sodalizio con Argento che durerà fino al 2001 con la colonna sonora di Non ho sonno.

In mezzo, tra scissioni e riformazioni, colonne sonore per titani horror americani come George A. Romero (Wampyr, Zombi) e nostrani come Joe D’Amato (per Buio Omega) e Michele Soavi (La Chiesa), fama e tour mondiali sostenuti da quei temi diventati leggenda.

Ma anche la più bizzarra delle svolte. Simonetti a fine anni ‘70 si allontana momentaneamente dalla band per seguire una vocazione “dance”. Lavora per un periodo con gli Easy Going (progetto che coinvolgeva anche Ivana Spagna e Tiziana Rivale) e Vivien Vee. Dopodiché compone e realizza insieme a Claudio Cecchetto il celeberrimo brano Gioca Jouer, sigla del Festival di Sanremo 1981 e massacratore di sessi a qualunque festa di piazza nei quarant’anni a venire. Una versatilità terrificante.

L’inno universale del cinema di paura

Il biblico impatto di John Carpenter e della musica dei suoi film sul cinema horror e sul modo di sonorizzarli è materia nota. Chiunque abbia assistito a un suo concerto (l’ultimo passaggio italiano è stato nel 2016 a Roma e Torino) può testimoniarlo.

Se la notte di Halloween ci fa scendere un brivido lungo la schiena è in gran parte merito dell’omonimo film di Carpenter, slasher mai pareggiato e teorizzazione, in forma di Michael Myers, del terrificante concetto di un Male innato, senza movente, incapace di intendere e di volere, assassino implacabile, automa killer nella sua dedita compostezza.

Oltre al mitologico tema composto da Carpenter, in una scena chiave del film compariva la canzone (Don’t Fear) The Reaper. E qui si apre una curiosa parentesi che riguarda quel brano e la musica dei film horror.

Il brano era stato scritto tre anni prima dai Blue Öyster Cult. Si fonda su un ipnotico riff di chitarra e la percussione di un cowbell, creando un’atmosfera di ovattava inquietudine che fa da perfetto preludio alle gesta di Michael Myers.

Tuttavia (Don’t Fear) The Reaper, scritta e cantata dal chitarrista Donald “Buck Dharma” Roeser, non ha mai avuto l’obiettivo di instillare sensazioni angoscianti o macabre. Anzi, per stessa ammissione del musicista è un inno all’amore eterno e un invito a non temere la morte, proprio per la sua natura ineluttabile. I riferimenti del testo sono vividi ma mai tragici o disperati. Come quei “40mila uomini e donne che muoiono ogni giorno” e “Romeo e Giulietta uniti per l’eternità”.

Eppure la hit dei BOC diventa il brano cardine dell’horror. Non solo per la sua presenza nel capolavoro di Carpenter e nel terzo capitolo della nuova trilogia a lui ispirata (Halloween Ends, 2022). Viene ripresa nel “rianimatore” dell’horror Scream (1996, Wes Craven), in Sospesi nel Tempo di Peter Jackson (in una versione cover), nella comedy horror Zombieland (2009), nelle serie Chucky e 1899 e nel revivalistico slasher X (2022, Ti West).

Persino il re dell’horror Stephen King ha citato il brano come ispirazione per il suo romanzo L’ombra dello scorpione. Ne ha anche richiesto l’inserimento nei due adattamenti televisivi del 1994 e 2020. Non male per una canzone che cercava di fare pace con la mortalità. Ma in fondo, come diceva qualcuno, “è tutta SIAE”.

La parabola di Rob Zombie

Quello tra horror e metal è un connubio socioculturale di lunghissima data. Ma nessuno come Rob Zombie ha saputo coniugare così bene carriere e simbologie dei due partiti.

Fondatore della band industrial metal White Zombie (il nome è diretto tributo a L’Isola degli Zombies, film del 1932 con Bela Lugosi), Robert Bartleh Cummings, in arte Rob Zombie, nato a pochi chilometri da Salem in Massachusetts, l’horror lo ha sempre avuto nel sangue, nel cuore e sui muri delle camerette.

Così appena ne ha la possibilità si mette dietro la macchina da presa. Realizza i suoi videoclip e uno per il suo idolo Ozzy Osbourne nel 2002. Un anno dopo arriva il salto nel cinema con La casa dei 1000 corpi. Il film era un omaggio a Non aprite quella porta. Regala all’horror di inizio millennio l’ultima grande icona del genere, il vizioso, sadico clown Captain Spaulding. Il nome, coniato da un personaggio di Groucho Marx, tradisce l’altra grande passione cinematografica di Rob Zombie.

Nel 2005 arriva il seguito La casa del Diavolo, ad oggi il capolavoro del regista. Espande notevolmente i margini del suo cinema e del suo universo di personaggi che “sono qui a fare il lavoro del Diavolo”.

Qui ci infila una delle sequenze musicali più memorabili dell’horror recente. Un finale di poesia malvagia e catartica in cui i tre protagonisti slittano subdolamente dalla posizione di truci assassini a quella di gloriosi disgraziati, una corsa in auto lungo un polveroso stradone texano, una sparatoria folle lunga nove minuti, quelli di Free Bird dei Lynyrd Skynyrd. La liberazione southern rock che chiude uno degli ultimi grandi film horror, capace di relativizzare bene e male, guardie e ladri, legge e fuorilegge.

Dopo il reboot di Halloween e il suo seguito, nel 2012 Zombie torna a un progetto più visionario e personale, Le streghe di Salem, altro film in cui il fattore musicale torna prepotente. È l’ossessivo, ridondante e ipnotico brano dei fittizi Lords of Salem (scritto e suonato da John 5, membro della band di Marilyn Manson, Mötley Crue e Filter) a trascinare la DJ radio Heidi (Sheri Moon Zombie) in una spirale allucinogena e un martirio evocativo.

Le streghe di Salem è un film interessantissimo. Il suo theme è una cantilena macabra e seducente. Ma il botteghino – e di conseguenza Hollywood – non ha pietà. E la voce dello Zombie regista, nonostante alcuni tentativi di rilancio, si abbasserà progressivamente.

La passione dell’horror per il pop italiano

Spesso a fare paura è la dissonanza. Ecco forse spiegato il motivo della strana invasione di music pop italica nei film horror dell’ultimo ventennio.

Così le due protagoniste del francese Alta tensione (2003), apripista della “new French extremity” che rivitalizzò il genere durante gli anni Duemila con dei super cult provenienti da oltralpe, vanno verso il massacro cantando Sarà Perché Ti Amo dei Ricchi e Poveri.

Così come Eli Roth, dichiarato fanboy del cinema di genere italiano anni ‘70, infila in Hostel (2005) Tretí Galaxie, versione ceca di Stella Stai di Umberto Tozzi che rende spensierati i turisti americani poco prima di finire vittime del torture porn di ricchi paganti in un edificio abbandonato nell’imprecisata Europa dell’est.

Anche Nave Fantasma di Steve Beck (2002) assegna alla suadente Senza Fine di Gino Paoli il ruolo di tormentone che preannuncia la tragedia tra onde e spettri. A interpretarla nel film è Francesca Rettondini.

Addirittura recidiva è la nuova stella dell’horror francese Julia Ducournau. Nel suo esordio Raw – Una cruda verità (2016), storia di una studentessa universitaria vegetariana che scopre all’improvviso una passione par la carne (umana), fa calare il sipario con Ma Che Freddo Fa di Nada. Nel successivo Titane, Palma d’Oro a Cannes, associa al suo bagno di sangue un’integrale Nessuno Mi Può Giudicare di Caterina Caselli.

Anche il regista catalano Jaume Balagueró (REC) sembra essere stato colpito da questa epidemia di “musicaitalianite”. Nel suo recente Venus, le presenze che si annidano in un appartamento alla periferia di Madrid uccidono, sì, ma accompagnati dalla Musica Leggerissima di Colapesce Dimartino e non risparmiano Nessuno (di Mina).

Perché non c’è niente di meglio che stemperare l’orrore con la spensieratezza della musica leggera italiana. Oppure rendere per sempre terrificanti le nostre hit da jukebox.

Articolo di Luca Zanovello

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